sabato 18 settembre 2010

scoperta felice che la mia storia è in mano a Dio

     La custodia del cuore e l'affidamento consentono di vivere meglio le varie forme di preghiera, come un contatto benefico e gustoso con il Signore. Se tutte aiutano a mettersi sotto il soffio dello Spirito buono sottraendosi a quelli cattivi, particolarmente importante è la preghiera del cuore. Si tratta di una preghiera integrale, quindi gustosa e sapienziale, che mira alla riunificazione dell'uomo a partire dalla discesa nel cuore, attraverso la pace.

         Ha come effetto la pacificazione e l'apertura al trascendente, la disposizione a uscire dai propri schemi psichici, quei circuiti sui quali giriamo incessantemente senza muoverci di un passo, quei dischi rotti che riproducono sempre la stessa musica, per mettersi finalmente di fronte ad altro.
          Difficilmente mi rendo conto sul momento di essere entrato in contatto diretto con Dio, né vi sono necessariamente particolari e precise ispirazioni, che non sono l'essenziale. Compare semplicemente un senso di pace, ed è questo che conta,perché sintomo del tocco benefico di Dio,che non è poi altro che lo Spirito, il "dito di Dio" che scrive nel cuore (cf. Es 31,18).
          Questo tocco, dall'effetto unificante e fortificante,non si percepisce tanto in sé quanto nei suoi effetti. Non subito, ma poi. Tende ad arrestare il vagabondaggio dei pensieri e a ridurre l'ansia. Mi immette nella pacifica fiducia in Dio e mi dispone favorevolmente verso i fratelli.
          La preghiera tenderà a invadere tutto: lo Spirito vuole restaurare l'unità personale. Questo non devo ricercarlo prematuramente e orgogliosamente: è dono di Dio. Lo Spirito non si fabbrica in laboratorio e non si dispone di lui. La pace è sempre un criterio di discernimento. Quando la perdo è segno che non sono più nell'abbandono.
          Nella misura in cui vivo nel cuore, ragione, volontà, sentimento e azione possono funzionare con lui. Queste capacità non sono più a servizio dell'autosufficienza, ma poste a servizio di altro.
          Si mettono a servizio di quanto il cuore coglie e accoglie, e cioè in sostanza del multiforme spettacolo dell'amore di Dio. La conoscenza diviene gustosa, ricca; il sentimento luminoso, materiato di luce.
          La volontà non mira direttamente a conseguire il risultato, ma si orienta sul proprio limite, sulla povertà come mezzo per accogliere lo Spirito: si orienta a Dio come a colui che dà vittoria agli umili.
L'opera non è più evasione e fuga da sé, ma nasce dalla sovrabbondanza del cuore e diviene sua irradiazione. Non si obbedisce più come schiavi, ma come amici, che sanno quel che fanno, ne colgono l'intrinseca bontà. La sapienza arriva alla sua bellezza.
Ciò che corona la virtù è l'amicizia e la contemplazione. Ed entrambe vengono a coincidere.
          Si ama Dio e nello stesso tempo si vuole il bene dell'uomo, perché Dio è glorificato proprio quando l'uomo vive bene e vive il bene. Dio è glorificato quando la famiglia umana è una di fronte a lui, e quando la singola persona si presenta al cospetto della sua gloria stando in questa unità che gli è svelata nel cuore.
          Il regno di Dio è la scoperta felice che la mia storia è in mano a Dio e non a potenze estranee, e che sto saldamente nella vita.
"Mia forza e mio canto è il Signore" (cf Es 15,2). Senza canto, la forza è violenza, autoaffermazione e imposizione. Forza vera è il cantico nuovo dello stupore che sempre sgorga dal cuore di fronte alla meravigliosa epifania della gloria di Dio (cf Es 14,4.17; Ap 5,9;14,3).
  autore: Marco Pratesi

venerdì 17 settembre 2010

La violenza...tra le tante... impedire a un uomo di fare una cosa che è per lui pericolosa...perché un figlio, parliamo nel caso di un essere umano sano, ha gli strumenti per decidere e capire ciò che fa

  Jean-Paul Sartre nei suoi "Cahiers pour une morale" scrive che “Nella violenza c`è speranza, nell’operazione legale c`è certezza" questa la differenza tra violenza e diritto e il loro "confine, a volte sicuro, altre volte è labile". Ma che cos’è la violenza? Una domanda tutto sommato semplice.
         Ma così non è, visto che ci sono diversi tipi di violenza, molti dei quali subdoli come le parole di qualcuno che ci sta vicino e che, di fatto, riescono a impedirci di fare ciò che desideriamo, costringendoci a ciò che lui desidera che noi facciamo.
         Trovare un tratto identificativo della violenza è capire se qualcuno ci sta facendo violenza o se noi stiamo facendo violenza a qualcuno. Ma che cos’è la violenza? È sempre una prevaricazione della volontà altrui e la volontà è sempre legata alla libertà. Si pensi al terrorismo che ha provocato un ritorno alla paura, alla passione, al conflitto, alla violenza annullando la democrazia ed annullando l’uomo. L’uomo ha voglia di far soffrire l’uomo e ricavarne godimento, ecco qualcosa di tipicamente umano. L’invidia, l’odio, il piacere della tortura: l’uomo cova passioni tristi come fondo permanente.
         Ogni volta che noi sentiamo la nostra libertà prevaricata lo è anche la nostra volontà e in quel momento ci viene fatta violenza, lo stesso accade quando noi facciamo sì che la nostra volontà prevarichi quella altrui. Pensare di impedire a un bambino di fare una cosa che è per lui pericolosa e di cui, in quel momento, non ha gli strumenti per capire la pericolosità, non è violenza è attenzione e amore.
         Impedire a un uomo di fare una cosa che è per lui pericolosa è violenza, perché un uomo, parliamo nel caso di un essere umano sano, ha gli strumenti per decidere e capire ciò che fa. Spesso il problema sorge quando si gioca coi sensi di colpa altrui, quando, in un modo o nell’altro, si tenta di comprare l’altro, di metterlo nella situazione di dirigere la sua scelta e addirittura di scegliere per lui, allora sì che è violenza.
         Oggi è importante creare relazioni e comportamenti personali semplici e corretti, diversi dai comportamenti della società regolati da specifiche leggi che mirano o dovrebbero mirare a difendere i soggetti più deboli anche usando la giusta dose di violenza ovvero di coercizione della volontà dove la volontà dell’altro mira a fare del male a una terza persona.
         La violenza è l`affermazione immediata, fattuale, al limite muta, di una volontà che prescinde programmaticamente dalla propria giustificazione, che si sottrae cioè all`onere di presentare a proprio fondamento ragioni disponibili alla discussione, alla critica e a un`eventuale confutazione. La violenza è l`esercizio della particolarità sorretta dalla mera capacità di fatto di affermare se stessa: sotto qualsiasi forma si presenti, è puro esercizio di forza.
         La nostra storia è dunque la storia di un confronto continuo tra violenza e cultura. Da una parte l`esercizio della ragione, l`apertura alla comunicazione e al vaglio critico, la disponibilità alla verifica discorsiva nella quale hanno esclusivo diritto di cittadinanza e valore le argomentazioni, la loro fondatezza, la loro coerenza; dall`altra parte, la pretesa di valere senza mediazioni e condizioni, la pretesa di affermarsi in quanto così e così caratterizzati, in nome delle proprie peculiarità, in forza del proprio essere quel che si è e del potere quel che si può.
         Ormai chi vive in Occidente e magari si informa, legge o guarda la tv, ha la sensazione di essere circondato da un mondo estremamente violento. Una sensazione che gli esperti ritengono fallace: altre epoche hanno conosciuto, secondo gli studiosi di scienze sociali, violenze più efferate e più frequenti e mai il mondo è stato così sicuro come adesso. Eppure, nonostante l`alto livello di civilizzazione, forse proprio a causa di questo, ci sentiamo insicuri e minacciati.
         La fine delle ideologie, l`indebolimento delle fedi religiose fanno sì che ci sentiamo piuttosto disorientati nei confronti delle norme e dei valori da abbracciare durante l`esistenza. La violenza prospera su un terreno di eccessiva tolleranza per cui il criminale gode di eccessive giustificazioni, si cerca sempre un alibi alle azioni più riprovevoli, tipo i traumi infantili, l`esclusione sociale, la famiglia, la scuola, la società.
         Il concetto di responsabilità deve tornare a far parte del vocabolario delle società occidentali. Ed anche quello di repressione. Certamente la repressione non basta. Difendersi dai delinquenti non è l`unico mezzo per bonificare la società.
         Occorre intervenire soprattutto nella fase educativa, nella scuola, in famiglia, nelle agenzie di socializzazione in genere, affinché i comportamenti violenti e prevaricatori vengano scoraggiati, puniti, messi alla gogna. Bisogna avere il coraggio di trasmettere valori etici ed estetici diversi dalla sopraffazione dell`altro arginando le ingiustizie e le ineguaglianze sociali, e mitigando le situazioni di sofferenza e povertà.
         Per vincere la violenza bisogna formare le coscienze. Un riscatto delle coscienze, una rivoluzione dei cuori. La strada per sconfiggere la violenza passa attraverso una nuova rotta morale. Occorrono vigorose risposte etiche e spirituali con una ricostruzione delle coscienze accanto a una ricostruzione del tessuto sociale, economico e culturale. Una profonda trasformazione interiore che deve coinvolgere mentalità, atteggiamenti e comportamenti quotidiani.
         Per vincere la violenza bisogna riprendere in mano il proprio futuro, promuovendo un`efficace opera pedagogica e formativa che punti soprattutto sulle nuove generazioni. Per vincere la violenza bisogna attivare una seria strategia di prevenzione per sradicare l’illegalità e violenza dalle pieghe del vivere sociale, attraverso una pastorale integrata organica in ogni diocesi e il coinvolgimento del mondo del lavoro, dell`ambiente scolastico, dei luoghi del tempo libero. Solo così potremo vivere sicuri e seminare la speranza.


(Quaderni Cannibali) Settembre 2010 - autore: Salvatore Barresi

giovedì 16 settembre 2010

Esiste un terreno sul quale la scuola sta mancando e non è questione di ideologie, ma di amore all’uomo

«Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono eguali. Una vogliuzza per il giorno e una per la notte: salva restando la salute. `Noi abbiamo inventato la felicità` – dicono e strizzano l’occhio. Io ho conosciuto persone nobili che hanno perduto la loro speranza più elevata. E da allora calunniano tutte le speranze elevate.
          Da allora vivono sfrontatamente di brevi piaceri e non riescono più a porsi neppure mete effimere. Perciò hanno spezzato le ali al loro spirito: che ora striscia per terra e contamina ciò che rode... Ma, ti scongiuro: mantieni sacra la tua speranza più elevata!». A leggere queste parole di Nietzsche si rimane sbalorditi: aveva previsto la chiusura della mente borghese e la sua rinuncia alla vita.
          Nessun uomo è un’isola e, parafrasando il poeta, si può dire lo stesso di uno studente che abbandona la scuola. Se abbandona, non fallisce lui solo, ma la scuola come relazione: genitori- insegnanti-studenti. I dati parlano chiaro, negli ultimi cinque anni uno studente su tre dell’ultimo quinquennio non arriva al diploma; nell’ultimo anno il 20% ha abbandonato il liceo e il 44% gli istituti professionali.
          La scuola dovrebbe essere, attraverso la cultura e il lavoro manuale, un trampolino di lancio per la scelta professionale più adeguata. Quello che posso dire, da professore, è che molti abbandonano perché la scuola appare loro inutile per ciò che vogliono essere e fare nella vita.
          Durante un’estate da liceale squattrinato lavoravo in un cantiere come aiuto di un manovale: «Sei fortunato – mi ripeteva – perché puoi studiare: se potessi, io tornerei indietro». La scuola dell’obbligo non obbliga a rimanerle fedele perché non riesce a obbligarti: solo gli amori veri e grandi `obbligano` alla fedeltà. I ragazzi che si disperdono spesso non hanno trovato docenti in grado di appassionarli.
          Eppure la scuola dovrebbe essere un andare a bottega: scoperta e incoraggiamento dei talenti personali per opera di maestri. Ho incontrato, con l’occasione del mio primo libro, studenti di tutte le città e percorsi. Ho trovato ragazzi di istituti tecnici affamati di letture, ben sapendo che avrebbero fatto l’elettricista, l’idraulico, l’informatico. Tutto merito di professori appassionati ai loro alunni, capaci di accendere nei ragazzi, attraverso la cura del pezzo di mondo loro affidato, lo sguardo su una vita più grande, più piena, più ricca.
          Molti ragazzi abbandonano perché tanto un lavoro si trova: si guadagna subito e si realizza l’orizzonte ristretto delle «vogliuzze». Manca loro uno sguardo di più lunga gittata. Gli adulti descritti da Nietzsche riescono a spegnere quello sguardo, perché hanno rinunciato loro stessi a una vita più grande. Anche loro si accontentano del tutto e subito.
          Se i ragazzi non leggono libri, è perché gli adulti accendono la tv, invece di prendere in mano un libro. Se i ragazzi abbandonano la scuola, è perché gli adulti della scuola non sono interessati a loro. La crisi dei giovani è crisi di maestri. Io conosco centinaia di maestri capaci di provocare la nostalgia del futuro, provocando (chiamandole alla luce) le risorse migliori degli studenti. Di contro ci sono docenti che odiano i loro studenti, li umiliano e condannano all’abbandono, non solo della scuola, ma di sé stessi.
          Nietzsche sferzava i benpensanti che trasformavano la felicità in vogliuzze e benessere, gli stessi che hanno criticato queste parole: «Allo stesso tempo la gioventù rimane comunque l’età in cui si è alla ricerca della vita più grande. Se penso ai miei anni di allora: semplicemente non volevamo perderci nella normalità della vita borghese. Volevamo ciò che è grande, nuovo. Volevamo trovare la vita stessa nella sua vastità e bellezza».
          Le ha pronunciate Benedetto XVI, qualche giorno fa. Nietzsche e il Papa sembrano d’accordo. Esiste un terreno sul quale la scuola sta mancando e non è questione di ideologie, ma di amore all’uomo. Nella scuola è dei docenti – alleati ai genitori – il compito di trasmettere una vita più grande e nuova attraverso le loro ore di lezione.
 http://www.avvenire.it 8 settembre 2010
Alessandro D`Avenia

toglimi la solitudine inventata dalla paura

“Asciugami gli occhi
di lacrime non spese,
toglimi la solitudine
inventata dalla paura,
donami una volontà
tenace come il fuoco.
Mescola di nuovo
la mia polvere,
soffiaci come allora
e risveglia
la mia volontà stordita,
che riposa senza vita
nel fondo del cuore.
Giunga il chiaro giorno
in cui Tu Dio
lotti con me,
e mi spingi a scegliere.
Riapri il mio cammino
e fallo prodigio come
il mio giardino
a primavera.”
don Luigi Verdi

mercoledì 15 settembre 2010

costretto a rendersi conto di quanto siano equivoche, nel nostro mondo, le parole

Chi pratica le parole, e con passione, come confesso è il mio caso, diventa, quanto più dura tale pratica, sempre più pensoso, perché è costretto a rendersi conto di quanto siano equivoche, nel nostro mondo, le parole.
Appena si siano pronunciate o scritte ecco si trasformano, addossandola chi le ha scritte o pronunciate una responsabilità che solo raramente egli è in grado di portare.
Chi scrive o pronuncia la parola 'pane' non sa che cosa ha fatto: si sono combattute guerre per questa parola, essa ha provocato omicidi, porta in sé una eredità formidabile, e chi la scrive dovrebbe sapere quale eredità porta e di che metamorfosi sia capace.
Se noi, consapevoli dell'eredità insita in ogni parola, esaminassimo i nostri vocabolari, studiassimo questo catalogo della nostra ricchezza, scopriremmo che dietro ogni parola si nasconde un mondo, e chi pratica le parole, come fa chiunque redige una notizia giornalistica o mette in carta il verso di una poesia, dovrebbe sapere che mette in moto dei mondi, che scatena forze polivalenti: quello che può consolare uno può ferire a morte un altro.
  La lingua baluardo della libertà di Heinrich Böl

LA PACE VERRÀ…

   
Se tu credi che un sorriso è più forte di un'arma,
Se tu credi alla forza di una mano tesa,
Se tu credi che ciò che riunisce gli uomini
è più importante di ciò che li divide,
Se tu credi che essere diversi è una ricchezza e non un pericolo,
Se tu sai scegliere tra la speranza o il timore,
Se tu pensi che sei tu che devi fare il primo passo piuttosto che l'altro,
allora...
LA PACE VERRÀ!
Se lo sguardo di un bambino disarma ancora il tuo cuore,
Se tu sai gioire della gioia del tuo vicino,
Se l'ingiustizia che colpisce gli altri ti rivolta come quella che subisci tu,
Se per te lo straniero che incontri è un fratello,
Se tu sai donare gratuitamente un po' del tuo tempo per amore,
Se tu sai accettare che un altro ti renda un servizio,
Se tu dividi il tuo pane e sai aggiungere ad esso un pezzo del tuo cuore,
allora...
LA PACE VERRÀ!
Se tu credi che il perdono ha più valore della vendetta,
Se tu sai cantare la gioia degli altri e dividere la loro allegria,
Se tu sai accogliere il misero che ti fa perdere tempo
e guardarlo con dolcezza,
Se tu sai accogliere e accettare un fare diverso dal tuo,
Se tu credi che la pace è possibile,
allora...
LA PACE VERRÀ!
( CHARLES DE FOUCAULD )

Gustave Flaubert affermava: ‘L'avvenire ci tormenta, il passato ci trattiene... il presente ci sfugge’.

Gran parte del senso che diamo alla vita dipende dal rapporto che abbiamo con il tempo’, scrive nell’Introduzione Niada. Poi conclude: ‘Non solo l’eccesso di impegni non ci permette più di mantenere un reale controllo del tempo, come facevano i monaci con lo scopo di avvicinarsi a Dio, ma sempre più la catena infernale di impegni e scadenze inizia a farci perdere il controllo di noi stessi, la nostra capacità di osservare e di creare, confondendo continuamente ciò che è urgente con ciò che è importante’ (pp. 10.11).
Il rischio dell’uomo moderno è quello di lasciar sincronizzare cuore ed intelligenza ai dettami esasperanti del mondo. ‘La società delle opportunità ha creato più una società «do it yourself» (fai da te, ndr) di egoisti, ha prodotto una nuova specie umana, imbozzolata in uno stile di vita dettato da celebrità e case di moda, in un gioco di specchi propinato da un’informazione ciarliera e onnipresente. Sta educando una gioventù sorda e autistica, il cui modo di essere è esemplificato dall’inseparabile auricolare del lettore mp3 o dell’iPod, un diaframma foderato di piombo per estraniarsi dal resto del mondo e vivere in un tunnel di vita «on demand» (su richiesta, ndr), in cui l’individuo ancora adolescente decide che cosa è buono per la propria edificazione, mentre le famiglie lasciano fare e interagiscono sempre meno con i figli che si alienano in mille universi paralleli’ (p. 157).
Il tempo breve (Garzanti 2010) un libro di Marco Niada, giornalista e firma storica del quotidiano “Il Sole 24 Ore”. Titolo e sottotitolo – Il tempo breve. Nell’era della frenesia: la fine della memoria e la morte dell’attenzione.


Il tempo è senza fine nelle tue mani,
mio Signore.
Non c'è nessuno che conti le tue ore.
Passano i giorni e le notti,
le stagioni sbocciano e appassiscono
come fiori.
Tu sai attendere.
I tuoi secoli si susseguono
per perfezionare un piccolo fiore di campo.

Noi non abbiamo tempo da perdere,
e non avendo tempo
dobbiamo affannarci
per non perdere le nostre occasioni.
Siamo troppo poveri per arrivare in ritardo.
E così il tempo passa,
mentre io lo dono
a ogni uomo querulo che lo richiede,
e il tuo altare è del tutto vuoto.
Alla fine del giorno m'affretto
per paura che la tua porta sia chiusa;
e invece c'è ancora tempo.

Il frutto di un’intimità... da qualche parte

È questa la lezione imparata in Somewhere, la pellicola di Sofia Coppola vincitrice del Leone d’Oro a Venezia 2010, che recupera le atmosfere rarefatte di Lost in translation, in un elegante percorso di maturazione personale e cinematografica della regista americana.

martedì 14 settembre 2010

Percepire il tocco delle mani benedicenti di Dio

La vera voce dell'amore è una voce molto tenue e gentile che parla nei recessi più nascosti del mio essere.
Non è una voce assordante che mi soggioga ed esige attenzione.
E' la voce di un padre quasi cieco, che ha pianto e molte morti ha sofferto.
E' una voce che può essere sentita solo da coloro che si lasciano toccare.
Percepire il tocco delle mani benedicenti di Dio e sentire la voce che mi chiama "figlio prediletto".

(L'abbraccio benedicente"Henri J. M. Nouwen)
Sia fatta la tua volontà Signore. Perchè tu conosci la debolezza del cuore dei tuoi figli ed a ciascuno concedi solo il fardello che puo' sopportare.
Che tu comprenda il mio amore, perchè è l'unica cosa che possiedo realmente, l'unica cosa che potrò portare con me nell'altra vita.
Fa che esso si mantenga coraggioso, puro e sempre vivo,
malgrado gli abissi e le trappole del mondo.
(Paulo Coelho)

lunedì 13 settembre 2010

La loro lettura promuove l'uomo medio a membro di un gruppo e quasi di un club

Quasi tutte le civiltà basate sullo studio dei classici si limitano ad un numero molto ristretto di autori, e pare che i meriti intrinseci di questi siano meno importanti della familiarità che si ha con essi. La loro lettura promuove l'uomo medio a membro di un gruppo e quasi di un club. Essa gli fornisce un modicum di citazioni, di argomenti e di esempi che l'aiutano a comunicare con i suoi contemporanei in possesso dello stesso bagaglio, il che non è poco. A un livello raggiunto più di rado, i classici sono, certo, molto di più: il supporto e il modulo, il filo a piombo e la squadra dell'anima, un'arte di pensare e talvolta di esistere. Nel migliore dei casi, essi liberano e spingono alla rivolta, sia pure contro di loro


domenica 12 settembre 2010

Una parabola con il finale sospeso

Il figliol prodigo all'altro: «Parlami!» di Enzo Bianchi, Avvenire, 20.8.2010

Nella sua predicazione Gesù è ricorso a racconti e narrazioni: le parabole, frutto della sua ricerca della volontà di Dio, della sua immaginazione, della sua osservazione contemplativa del cuore umano, della natura e delle storie personali e collettive. Ma tra queste, ve n’è una che appare come «incompiuta», una parabola che sembra attendere altri eventi, quasi una parabola in atto di compiersi: è quella dei due figli, che abbiamo memorizzato come «la parabola del figliol prodigo».
Una parabola con il finale sospeso: il figlio perduto ritorna a casa, il padre lo abbraccia e gli usa piena misericordia senza chiedergli conto del male commesso, l’inizio della festa per questo figlio ritrovato... Poi ecco apparire l’altro figlio, il maggiore, rimasto sempre a casa: risentito, non vuole partecipare alla gioia del padre e del fratello. Allora il padre esce di casa anche per lui, pregandolo di entrare e unirsi alla festa... La fine del racconto tace sulla reazione del figlio maggiore: è rimasto ostinatamente fuori? Cos’è successo dopo l’avvio della festa con la musica e il pranzo preparato? Una parabola incompiuta, appunto. Suonerebbe poco riverente verso il Vangelo osare immaginare non un’altra fine, ma un seguito che renda la parabola compiuta? Significherebbe forse indicare un esito, far accadere ciò che non è stato narrato come accaduto... Ma siccome tutte le volte che leggo questa parabola penso sempre all’esito che avrebbe potuto avere e mi ritrovo a ipotizzare sempre lo stesso finale, oso affidarlo ai lettori, certo della loro capacità di farne buon uso e di non confonderlo con il Vangelo stesso.


Il figlio minore scappato di casa, dopo aver dilapidato tutta l’eredità pretesa dal padre, si era deciso a ritornare a casa: meglio essere un servo in casa di suo padre che vivere da salariato guardiano di porci! Non conosceva in profondità suo padre, infatti da lui si attendeva solo un po’ di pietà per colui che restava nonostante tutto suo figlio. Il padre invece, da quando il figlio era fuggito, l’aveva sempre aspettato e il suo amore – che esprimeva anche l’amore della madre che non c’era più – non era mai venuto meno: aspettava, aspettava, sovente scrutando l’orizzonte dalla terrazza di casa, là dove la strada scompariva dietro le colline... Così un giorno, scorgendo una sagoma in lontananza, comprese che era lui, suo figlio. Allora gli corse incontro: era scalzo, vestito di cenci, barba e capelli incolti, avanzava come un relitto umano, emanava anche un tanfo insopportabile... Quella corsa finì con un abbraccio, sfociò in un volto contro volto, occhi contro occhi, in un unico pianto di gioia. Il padre non sentì le parole biascicate dal figlio, ma gli salì dal cuore una parola: «È vivo! Festa, allora!». E festa sia: i garzoni vanno a macellare il vitello grasso, accendono il fuoco della cucina, mentre altri preparano il bagno, le vesti profumate e i calzari nuovi... E il padre gli mette al dito l’anello di famiglia, custodito per lui, mentre i musicanti invitano alla festa.

Festa grande, festa per tutti! Ma l’altro figlio dov’è? A quest’ora avrebbe dovuto essere rientrato dai campi... Dov’è? Il padre esce di nuovo, di corsa, per cercarlo e dargli la buona notizia del fratello tornato, non più perduto come un morto, ma vivo! Invece, il dramma: nell’ora in cui il padre ha riacquistato un figlio rischia di perdere l’altro. Non appena il maggiore, infatti, vede il padre e sente la sua «buona notizia», ecco l’indignazione, la rivolta! La sua voce risuona dura, tagliente: «Come puoi chiedermi di essere contento e di far festa per questo tuo figlio che ha preso i suoi soldi prima che gli spettassero, che è andato a spenderli comprandosi amici interessati e amore di prostitute, che ha lasciato a noi la fatica e il lavoro, senza mai dare un cenno di vita? E io dovrei far festa?». Ma il padre: «È mio figlio, certo, ma è anche tuo fratello! Io sono il padre di tutti e due: vi ho amati e vi amo, siete la mia vita! Tu sei rimasto qui accanto a me, è vero, lui se n’è andato lontano, ma io vi amo tutti e due, di tutti e due mi sento padre e non posso fare diversamente. Se non vi sentite fratelli tra voi, è come se io non potessi essere vostro padre!».
Come aveva abbracciato il figlio fuggito, il padre ora supplicava l’altro figlio che non voleva partecipare alla festa. Come aveva atteso il figlio perduto, ora era disposto ad aspettare che il primogenito entrasse in casa per la festa. Fino a quando restò là a pregarlo? Fino al momento – che il padre non aveva osato sperare – in cui sopraggiunse il figlio minore, fino a quando il figlio rinato non accorse verso suo fratello! Questa volta non aveva preparato parole di circostanza, come prima di tornare a casa: avanzò semplicemente, gli occhi bassi colmi di contrizione, giunse davanti al fratello e, senza alzare lo sguardo, gli disse solo: «Fratello, rivolgimi una parola, anche di condanna, e saprò di essere rinato anche per te: allora sarò veramente rinato!». Il primogenito rimase come paralizzato: non riusciva né aprire la bocca né ad allargare le braccia... Si lasciò abbracciare, tenendo le braccia rigide, come legate al corpo. Ma quando sentì il calore delle lacrime del fratello rigare il proprio volto, qualcosa in lui si schiuse, le labbra si aprirono per sussurrare semplicemente «Sì!». Davvero tutto quello che era del padre era anche suo! Non solo la casa e i campi, non solo vitelli e capretti, ma anche l’amore per quell’uomo perduto e ritrovato, l’amore per un figlio ridiventato fratello. Sì, l’amore del padre era amore anche suo, un amore condiviso. E cominciarono a far festa, tutti insieme, una festa senza fine...
Non potremo mai sapere se questo era davvero il finale della parabola narrata da Gesù, né questa domanda è decisiva. Possiamo e dobbiamo invece interrogarci proprio a partire dall’intero racconto e da quel fiato sospeso che lo conclude: chi è il figlio primogenito e chi è il minore, perduto? Chi dei due è autenticamente figlio e fratello? Quando lo diventa o lo ridiventa? E ciascuno di noi, dove si colloca? Decisivo in questa parabola familiare è che entrambi i fratelli sono stati ritrovati dal padre, il quale è nella gioia solo quando ha in casa tutti i suoi figli, capaci di perdonarsi e di fare festa insieme.