sabato 20 ottobre 2012

La superbia rende ciechi


Come se Gesù avesse parlato a vuoto.
Succede anche a noi: usciamo ed è come se Gesù avesse parlato a vuoto.
E pretendono, capite! "Noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo".
E, dopo che hanno chiesto i primi posti, Gesù a dire: "Voi non sapete ciò che domandate".
Domandano, ma è come se sfuggisse loro che cosa sta sotto la loro domanda, quali sentimenti la muovono, quali pulsioni, quali mire segrete.
Perfino le domande a Dio, le nostre richieste fatte preghiera, possono venire -dice un vescovo- "da uno zoccolo duro di superbia e di prepotenza, che ci rende ciechi, che ci impedisce di sapere ciò che chiediamo, alza muri tra gli amici e blocca ogni via di uscita" (Giancarlo Bregantini).
È proprio vero che la superbia chiude gli occhi, non ti permette di guardare con sincerità dentro il tuo cuore, genera preghiere che sono pretesa, e alza muri: "All'udire questo, gli altri dieci si sdegnarono con Giacomo e Giovanni".
Gli altri dieci, all'unanimità: unanimi nella gelosia, nella rivalità, uno spettacolo indecoroso che i vangeli registrano con una schiettezza disarmante.
La superbia rende ciechi.
E Gesù sposta l'orizzonte, l'orizzonte della domanda, quasi a dire: non è questa la strada, questa è una strada chiusa. Qualcuno, nell'ambito della vita sociale, dovrà pur ricoprire delle cariche, ma se lo spirito che muove è quello dell'io arrogante, dell'interesse personale, del dominio, si alzano i muri, non si genera il bene comune, si genera il bene di pochi, si dissangua una società.
È altra la strada: "Potete bere il calice che io bevo o ricevere il battesimo con cui sono battezzato?".
È questa, secondo Gesù, è questa la garanzia. Sì, potremmo anche dire, questa la condizione che consente a un potere di rimanere tale e di non degradare in dominio: "Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano e i loro grandi esercitano su di essi il potere. Ma fra voi non è così".
Sembra quasi di scorgere una sottile ironia nel modo di esprimersi di Gesù, come se volesse ridimensionare i nostri criteri e i nostri linguaggi.
"Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni...": "sono ritenuti", ma non lo sono. Non sono guide, hanno in mente altro, hanno in mente se stessi.
Qual è la via proposta da Gesù: bere al suo calice, bere al calice dell'amarezza e della sofferenza.
Se non passi dentro i drammi della gente, se non condividi, ma dal di dentro, non dall'alto, la sofferenza, se non sei coinvolto nel calice amaro, la tua voce non è una risposta né ai problemi, né alla vita, né alla morte, la tua è una commedia, niente più di una commedia.
"La vita" -scrive il Vescovo di Locri, Giancarlo Bregantini, vescovo di una terra spesso ferita- "è segnata da questo passaggio che precede ogni altra riflessione teologica e biblica.
Se esse spesso sono sterili, non dipende dalla loro chiarezza, che anzi è crescente, ma dal fatto che prima non c'è stato l'incontro diretto personalizzato, coinvolgente con quel calice. Don Angelo Casati

venerdì 19 ottobre 2012

Entro nell'attitudine che ciò che viene dall'altro è dono, è gratuità e mi stupisce e ne sono grato.


Dopo l'esperienza di tanti anni di vita religiosa, di cose belle, gioiose, ma anche con tante delusioni, ci è chiesto di entrare in un rapporto con l'altro in cui non mi attendo nulla, non pretendo nulla dall'altro, esco da un rapporto di potere e di dipendenza. Sto bene se l'altro mi dà e mi dice, oppure pretendo?. Entro nell'attitudine che ciò che viene dall'altro è dono, è gratuità e mi stupisce e ne sono grato. Non pretendere nulla, non avere potere nelle relazioni con l'altro.
Questa è una regola importante: accettare che quello che viene mi può stupire come un dono inatteso.
La vita comune ci porta anche ad una certa stanchezza, ad un senso di sterilità, di infecondità, anche al timore del futuro, alla paura di invecchiare, alla paura della solitudine in cui si fa strada il desiderio di un affetto stabile, forte, che si può vivere in uno spazio comunitario con una amicizia larga, bella, libera sotto gli occhi del sole, con una sorella della comunità e con altre persone. Questa esperienza è molto rara.
Entrare in assunzione di responsabilità. Non è più possibile continuare a lamentarsi, a piangere per i torti subiti in passato, in comunità. "A me non è stata data questa opportunità, a me è stato fatto questo, all'altra è stato fatto tutto...".
Si tratta di assumere il passato per poter vivere oggi un tempo fecondo: certamente se si sa leggere in modo libero il passato, si sa anche che si è stati accolti, si è ricevuto amore.
È giunto il tempo di imparare a donare, a non restare sempre figlie che dipendono da..., ma di arrivare ad amare in modo adulto, di essere capaci di donare, di rinunciare a qualcosa di sé per dare vita ad altre, per servire altri.
Importante è la frase di Gesù: "gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date". Diventare responsabili della propria vita, delle proprie relazioni, della propria fede; uno diventa responsabile di ciò che fa e di ciò che ha subito.
Si tratta di scegliere di amare le persone che il Signore ci ha messo accanto, fondandoci sempre sul Vangelo, sul Signore che mi ama sempre più interiormente e le persone che mi hanno amato, l'esperienza di amore che ho conosciuto che mi hanno generato e sto continuando e che cerco di vivere ancora e comunque che mi chiedono ormai di diventare o mi danno fiducia nel poter essere io ad amare altro. Ecco una maturità di amore e oserei dire anche di castità.
Infine rinnovare la confessione di fede che il mio giudice è il Signore come dice Paolo.
Si tratta di mettersi davanti a Dio, davanti alla propria coscienza, per vedersi in verità. Quante volte si fanno delle cose per compiacere qualcuno, per dovere ...
Il mio giudice è il Signore, non è una visione da tribunale, è un appello di libertà, non agisco in base ad un dovere, ad un far piacere a qualcuno, ma in verità.
Forse questi elementi ci possono aiutare ad assumere il limite della nostra creaturalità; la lezione del tempo che passa, dei nostri giorni che vanno scemando, ci possono aiutare ad entrare in una interiorità rafforzata e soprattutto ci possono portare a quello che è l'essenziale per la nostra vita: siamo chiamati a vivere e a morire con il Signore. Questo è l'essenziale della nostra vita è il tempo della seconda fase della vita e poi il tempo della vecchiaia è quello che ci può ricordare e riportare alla vera essenzialità.

Luciano Manicardi

giovedì 18 ottobre 2012

è davvero il fuoco che non si può spegnere

Paolo dice in Timoteo 1,12 "lo so in chi ho posto la mia fede". Questo sapere non è un sapere intellettuale, è un sapere che coinvolge tutta la persona, è un sapere del cuore, un sapere in cui il sì della persona la coinvolge totalmente, è quel fuoco interiore che non può essere rinnegato, quindi non si può rinnegare se stessi.
Sono io che ho scelto e deciso di vivere questa vita, e ho deciso abbandonandomi al Signore. Sicuramente c'è il momento della tentazione, dell'azzeramento del proprio passato: "e se mi fossi sbagliato, se fosse stata tutta una illusione?". Indubbiamente viene questa domanda. Proprio in quel momento la crisi si fa presente.
La crisi può anche essere un momento di verità, un momento in cui siamo chiamati ad avvertire un sintomo che ci dice che i nostri assetti interiori devono riadattarsi alla situazione che stiamo vivendo; c'è un riassettamento da fare.
In particolare Geremia è chiamato ad integrare, nella sua vocazione, anche le sofferenze, le contraddizioni, le ostilità che gli vengono dai suoi stessi confratelli, all'interno stesso del popolo di Dio. Ma ciò che è essenziale è quel fuoco chiuso nelle sue ossa che egli non può contenere. È questo il ravvivamento della vocazione.
In Geremia 20,8-9 "Diversi anni dopo, quando già per molto tempo aveva esercitato il suo ministero profetico dice: "Quando parlo devo gridare, proclamare violenza, oppressione, così la parola del Signore è diventata per rne motivo di obbrobrio e di scherno ogni giorno". Era così dolce, così bello e adesso ... motivo di obbrobrio e di scherno. "Mi dicevo, non penserò più a Lui, non parlerò più in suo nome." Basta, subentra la tentazione dell'abbandono.
Se un profeta non parla più in nome di Dio, ha finito il suo ministero. "Ma nel mio cuore c'era un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa, mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo". Se la vocazione risponde al desiderio profondo della persona, questo è davvero il fuoco che non si può spegnere.
Luciano Manicardi

mercoledì 17 ottobre 2012

La crisi è occasione di rinnovamento


Tre figure bibliche, ci presentano un itinerario di vita, in cui ad un certo punto e dopo diverso tempo dall'inizio delle vocazione, attraverso una crisi, arrivano ad un rinnovamento della loro vita.
Le tre figure sono: Geremia, Elia e Pietro.
Ad un certo punto del loro ministero hanno dovuto rinnovare radicalmente la loro vita ed anche la loro fede. Anche la fede deve rinnovarsi, anche il modo di rapportarsi al Signore deve assumere un volto nuovo.
Dai tre personaggi possiamo ricavare un insegnamento unitario: il rinnovamento della vocazione passa attraverso la crisi della vocazione. La crisi è occasione di rinnovamento; la crisi può arrivare anche a portare all'abbandono di una vocazione, ma in questi casi vediamo che la crisi è stata ciò che ha consentito il rinnovamento e quindi l'adattamento delle motivazioni iniziali ad una nuova fase della vita, quando, probabilmente, le motivazioni iniziali, quelle che hanno condotto a 20, 25 anni a dire sì mostrano il limite, non sono più sufficienti. Luciano Manicardi

martedì 16 ottobre 2012

Nessuno disprezzi la tua giovane età (1Tim. 4,2)

 Paolo, ad un certo punto dice: "Nessuno ti disprezzi per la tua giovane età".
Paolo intende dire: adesso hai questo incarico, adesso ti senti giovane, hai a che fare con persone che sono anche più grandi di te. Nessuno disprezzi la tua giovane età (1Tim. 4,2)
Le difficoltà di chi ha delle responsabilità, sono anche insite nel senso di inadeguatezza, ma è bene che ci sia, così uno non si sente super uomo. Ne faremmo volentieri a meno di responsabilità.
Al tempo stesso si può cogliere un senso di sgomento di fronte alla responsabilità nell'affrontare situazioni, nel condurre e nell'aiu-tare altre perone che sono di fronte ad una crisi, che non sanno come arginare....
Possiamo indubbiamente sentire il senso di inadeguatezza, il senso di paura. Ma anche queste sono situazioni e occasioni che possiamo volgere al positivo. Sono luoghi in cui possiamo trovare il sì che abbiamo detto una volta. Quando diciamo il nostro senso di adeguatezza, diciamo qualcosa che è sensato, e proprio in questa situazione mi misuro.
È certo che non ce la faccio nella misura in cui continuo a guardare a me stesso. Se rimetto la mia fiducia al Signore e nella comunità forse posso farcela; non guardando più a me stesso, ma guardando al Signore e aprendomi a Lui.
Fidandomi di Lui, anche tutte le difficoltà che possiamo sentire dell'inadeguatezza, della solitudine ecc.. possono diventare dei luoghi in cui rinnovare il sì iniziale che abbiamo detto. Luciano Manicardi

lunedì 15 ottobre 2012

la crisi c'è quando non c'è carità

Il problema della crisi della vita religiosa non è tanto numerico; la crisi c'è quando non c'è carità. Quando in una comunità non ci si vuole bene, quando ci sono odi e gelosie, ripicche, vendette, volontà di non perdono e tante altre meschinità di cui siamo capaci, allora c'è la crisi. Ma quando c'è carità, benevolenza riconoscimento dell'altro e anche se si è in piccolissime comunità con persone con pochissime forze, lì risplende il Vangelo. Siamo chiamate a questo: a vivere la carità, l'agape e quando questo c'è, non si può dire che c'è crisi. Una vita religiosa è vita spesa per il Signore, chiamata ad assimilarsi a quella agape che il Signore ha vissuto.
«Ravviva il dono che è in te» (2 Tim 1,6) (Luciano Manicardi)

domenica 14 ottobre 2012

Pia è solo quella parola che si riconosce sempre lontana dal Vero


Nella preghiera si mostra con dolore, nel dolore, che l’unione dello spirito con la carne è imperfetta, incompiuta. Nel passaggio dal tempo all’eterno, il tempo. resiste, fa peso. E la preghiera è il superamento del tempo nel tempo. Gesù, il Figlio divino che s’è fatto uomo, è la testimonianza più alta che non si prega in Dio. Per questo la sua sofferenza è reale. Si prega fuori di Dio, nel tempo. Ma tendendo a ciò che è oltre il tempo. Questa tensione non è già l’oltre, anche se anticipa il fuori. Nella preghiera cristiana l’umano, l’umanissimo pianto del dolore per la morte è totalmente accolto e compreso.
Un’indissolubile unione di gioia e dolore, di dolore e gioia, caratterizza la preghiera cristiana. Che è e resta parola umana che trascende il tempo nel tempo. Perciò sempre distante dalla Verità. Infinitamente lontana. Mai parola di Verità, O meglio: parola di Verità solo in quanto si riconosce differente dalla Verità. La Verità è meta, scopo, termine della parola.
Pia è solo quella parola che si riconosce sempre lontana dal Vero, pur nella prossimità estrema ad esso; empia quella che presume di essere la parola della Verità.
Il Dio possibile non concede riposo, non concede certezze, identità. La presenza di Dio, del Dio possibile, è la presenza non di un’assenza, ma di una mancanza - e di una sofferenza. Di un’infinita nostalgia. Ma è questa nostalgia che ci «salva». Che salva la nostra «finitezza»: che serba, custodisce questa finitezza e la riscatta.
Vincenzo Vitiello