sabato 16 ottobre 2010

Lo sconforto ci rende inattivi, come immobilizzati e senza forze


Come non lasciarsi prendere dalla sconforto? Forse cominciando a pensare che è proprio quello che chi ci governa vuole. Lo sconforto ci rende inattivi, come immobilizzati e senza forze. Eppure tempi bui ce ne sono stati e la Arendt ne parla chiaramente nel libro “L’umanità in tempi bui” di cui ho già parlato qui e dice:
"Anche nei tempi più bui abbiamo il diritto di attenderci una qualche illuminazione la quale potrebbe giungere non tanto da teorie e nozioni astratte quanto dall'incerta tremolante e spesso flebile luce che alcuni uomini e donne, nella loro vita e con il loro operato, accenderanno pressoché in qualsiasi circostanza e diffonderanno durante il tempo che è stato loro concesso in terra".
In un passo della sua Autobiografia Norberto Bobbio si interroga sul significato della vita individuale e collettiva per mezzo di tre immagini tratte da Wittgenstein: la bottiglia nella quale la mosca vola a casaccio, la rete in cui si dibatte il pesce, il labirinto entro il quale ci si aggira cercando la via per uscirne.
Al di là del comune malessere, la mosca nella bottiglia, il pesce nella rete e l'uomo che erra nel labirinto sono in condizioni molto diverse. La mosca uscirà dalla bottiglia (sempre che sia senza tappo) solo per un colpo di fortuna. La sorte del pesce è invece segnata e il suo dibattersi non farà che impigliarlo sempre di più, mentre chi è perso nel labirinto può tentare di uscirne con il suo ingegno. "La sorte, la necessità e l’ingegno - dice Zagrebelsky - sono le cause che muovono le tre situazioni. Bobbio, si comprende facilmente conoscendone il carattere prima ancora che l’opera, tra le tre immagini predilige quella del labirinto":
«Chi entra in un labirinto sa che esiste una via d’uscita, ma non sa quale delle molte vie che gli si aprono innanzi di volta in volta vi conduca. Procede a tentoni. Quando trova una via bloccata torna indietro e ne prende un’altra. Talora la via che sembra più facile non è la più giusta; talora, quando crede di essere più vicino alla meta, ne è più lontano, e basta un passo falso per tornare al punto di partenza. Bisogna avere molta pazienza, non lasciarsi mai illudere dalle apparenze, fare, come si dice, un passo per volta, e di fronte ai bivi, quando non si è in grado di calcolare la ragione della scelta, ma si è costretti a rischiare, essere sempre pronti a tornare indietro».
Essere nel labirinto richiede che «non ci si butti mai a capofitto nell’azione, che non si subisca passivamente la situazione, che si coordinino le azioni, che si facciano scelte ragionate, che ci si propongano, a titolo d’ipotesi, mete intermedie, salvo a correggere l’itinerario durante il percorso, ad adattare i mezzi al fine, a riconoscere le vie sbagliate e ad abbandonarle una volta riconosciute».
Forse possiamo spesso non vedere l'uscita e questo è vero nel tempo che stiamo vivendo, ma, secondo Bobbio, dobbiamo operare credendo che ci sia e su questo anche "esile filo costruire la nostra speranza, la speranza degli uomini di ragione e non di fede". 

venerdì 15 ottobre 2010

Lettera sulla felicità Epicuro

Meneceo,
Mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell'animo nostro. Chi sostiene che non è ancora giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza di essa, o che ormai è troppo tardi, è come se andasse dicendo che non è ancora il momento di essere felice, o che ormai è passata l'età. Ecco che da giovani come da vecchi è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità. Per sentirci sempre giovani quando saremo avanti con gli anni in virtù del grato ricordo della felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti in essa, per prepararci a non temere l'avvenire. Cerchiamo di conoscere allora le cose che fanno la felicità, perché quando essa c'è tutto abbiamo, altrimenti tutto facciamo per possederla. Pratica e medita le cose che ti ho sempre raccomandato: sono fondamentali per una vita felice.
Prima di tutto considera l'essenza del divino materia eterna e felice, come rettamente suggerisce la nozione di divinità che ci è innata. Non attribuire alla divinità niente che sia diverso dal sempre vivente o contrario a tutto ciò che è felice, vedi sempre in essa lo stato eterno congiunto alla felicità. Gli dei esistono, è evidente a tutti, ma non sono come crede la gente comune, la quale è portata a tradire sempre la nozione innata che ne ha. Perciò non è irreligioso chi rifiuta la religione popolare, ma colui che i giudizi del popolo attribuisce alla divinità. Tali giudizi, che non ascoltano le nozioni ancestrali, innate, sono opinioni false. A seconda di come si pensa che gli dei siano, possono venire da loro le più grandi sofferenze come i beni più splendidi. Ma noi sappiamo che essi sono perfettamente felici, riconoscono i loro simili, e chi non è tale lo considerano estraneo. Poi abìtuati a pensare che la morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il soffrire sono entrambi nel sentire, e la morte altro non è che la sua assenza. L'esatta coscienza che la morte non significa nulla per noi rende godibile la mortalità della vita, senza l'inganno del tempo infinito che è indotto dal desiderio dell'immortalità. Non esiste nulla di terribile nella vita per chi davvero sappia che nulla c'è da temere nel non vivere più. Perciò è sciocco chi sostiene di aver paura della morte, non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in quanto l'affligge la sua continua attesa. Ciò che una volta presente non ci turba, stoltamente atteso ci fa impazzire. La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c'è, quando c'è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c'è, i morti non sono più. Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai mali che vive. Il vero saggio, come non gli dispiace vivere, cosi non teme di non vivere più. La vita per lui non è un male, né è un male il non vivere. Ma come dei cibi sceglie i migliori, non la quantità, così non il tempo più lungo si gode, ma il più dolce.
Chi ammonisce poi il giovane a vivere bene e il vecchio a ben morire è stolto non solo per la dolcezza che c'è sempre nella vita, anche da vecchi, ma perché una sola è la meditazione di una vita bella e di una bella morte. Ancora peggio chi va dicendo: bello non essere mai nato, ma, nato, al più presto varcare la soglia della morte. Se è cosi convinto perché non se ne va da questo mondo? Nessuno glielo vieta se è veramente il suo desiderio. Invece se lo dice cosi per dire fa meglio a cambiare argomento. Ricordiamoci poi che il futuro non è del tutto nostro, ma neanche del tutto non nostro. Solo cosi possiamo non aspettarci che assolutamente s'avveri, né allo stesso modo disperare del contrario. Cosi pure teniamo presente che per quanto riguarda i desideri, solo alcuni sono naturali, altri sono inutili, e fra i naturali solo alcuni quelli proprio necessari, altri naturali soltanto. Ma fra i necessari certi sono fondamentali per la felicità, altri per il benessere fisico, altri per la stessa vita. Una ferma conoscenza dei desideri fa ricondurre ogni scelta o rifiuto al benessere del corpo e alla perfetta serenità dell'animo, perché questo è il compito della vita felice, a questo noi indirizziamo ogni nostra azione, al fine di allontanarci dalla sofferenza e dall'ansia. Una volta raggiunto questo stato ogni bufera interna cessa, perché il nostro organismo vitale non è più bisognoso di alcuna cosa, altro non deve cercare per il bene dell'animo e del corpo. Infatti proviamo bisogno del piacere quando soffriamo per la mancanza di esso. Quando invece non soffriamo non ne abbiamo bisogno. Per questo noi riteniamo il piacere principio e fine della vita felice, perché lo abbiamo riconosciuto bene primo e a noi congenito. Ad esso ci ispiriamo per ogni atto di scelta o di rifiuto, e scegliamo ogni bene in base al sentimento del piacere e del dolore. È bene primario e naturale per noi, per questo non scegliamo ogni piacere. Talvolta conviene tralasciarne alcuni da cui può venirci più male che bene, e giudicare alcune sofferenze preferibili ai piaceri stessi se un piacere più grande possiamo provare dopo averle sopportate a lungo. Ogni piacere dunque è bene per sua intima natura, ma noi non li scegliamo tutti. Allo stesso modo ogni dolore è male, ma non tutti sono sempre da fuggire. Bisogna giudicare gli uni e gli altri in base alla considerazione degli utili e dei danni. Certe volte sperimentiamo che il bene si rivela per noi un male, invece il male un bene. Consideriamo inoltre una gran cosa l'indipendenza dai bisogni non perché sempre ci si debba accontentare del poco, ma per godere anche di questo poco se ci capita di non avere molto, convinti come siamo che l'abbondanza si gode con più dolcezza se meno da essa dipendiamo. In fondo ciò che veramente serve non è difficile a trovarsi, l'inutile è difficile. I sapori semplici danno lo stesso piacere dei più raffinati, l'acqua e un pezzo di pane fanno il piacere più pieno a chi ne manca.
Saper vivere di poco non solo porta salute e ci fa privi d'apprensione verso i bisogni della vita ma anche, quando ad intervalli ci capita di menare un'esistenza ricca, ci fa apprezzare meglio questa condizione e indifferenti verso gli scherzi della sorte. Quando dunque diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il semplice piacere dei goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e l'animo a essere sereno. Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l'animo causa di immensa sofferenza. Di tutto questo, principio e bene supremo è l'intelligenza delle cose, perciò tale genere di intelligenza è anche più apprezzabile della stessa filosofia, è madre di tutte le altre virtù. Essa ci aiuta a comprendere che non si dà vita felice senza che sia intelligente, bella e giusta, né vita intelligente, bella e giusta priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili. Chi suscita più ammirazione di colui che 133 ha un'opinione corretta e reverente riguardo agli dei, nessun timore della morte, chiara coscienza del senso della natura, che tutti i beni che realmente servono sono facilmente procacciabili, che i mali se affliggono duramente affliggono per poco, altrimenti se lo fanno a lungo vuol dire che si possono sopportare? Questo genere d'uomo sa anche che è vana opinione credere il fato padrone di tutto, come fanno alcuni, perché le cose accadono o per necessità, o per arbitrio della fortuna, o per arbitrio nostro. La necessità è irresponsabile, la fortuna instabile, invece il nostro arbitrio è libero, per questo può meritarsi biasimo o lode. Piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell'atroce, inflessibile necessità. La fortuna per il saggio non è una divinità come per la massa – la divinità non fa nulla a caso – e neppure qualcosa priva di consistenza. Non crede che essa dia agli uomini alcun bene o male determinante per la vita felice, ma sa che può offrire l'avvio a grandi beni o mali. Però è meglio essere senza fortuna ma saggi che fortunati e stolti, e nella pratica è preferibile che un bel progetto non vada in porto piuttosto che abbia successo un progetto dissennato. Medita giorno e notte tutte queste cose e altre congeneri, con te stesso e con chi ti è simile, e mai sarai preda dell'ansia. Vivrai invece come un dio fra gli uomini. Non sembra più nemmeno mortale l'uomo che vive fra beni immortali.

giovedì 14 ottobre 2010

senza la vita interiore non si dà alcun cammino di umanizzazione

Torino, 4 ottobre 2010 -
Centro congressi del Santo Volto
Enzo Bianchi
Priore di Bose
QUALE SPIRITUALITÀ PER L’UOMO CONTEMPORANEO?


C’è vita interiore quando non ci si lascia vivere, quando non si permette ad altri di
decidere e pensare per noi, quando non ci si accontenta di certezze già confezionate ma si è
capaci di aprirsi alle domande poste dalla vita, alla domanda di senso e si è disposti, anche a
fatica, a tentare di dare una risposta personale. Una vera vita umana deve sì avvenire nella
comunicazione con gli altri, ma non deve essere debitrice di soluzioni che gli altri trovano per
noi: no, ognuno è chiamato a trovare in sé, in un cammino di vita interiore, la fonte del senso.

si deve affermare con chiarezza che la vita interiore non è una vita
contrapposta alla nostra vita materiale, alla nostra esistenza quotidiana; anzi, è una vita
vissuta nel corpo, nella storia, nell’umanità senza possibili evasioni o esenzioni: è un modo di
pensare, di sentire e di agire concreto, con gli altri e tra gli altri. Insomma, senza la vita
interiore non si dà alcun cammino di umanizzazione: solo proporzionalmente allo sviluppo
della vita interiore c’è la possibilità di costruire la propria personalità, di trovare senso e
significato nella vita, di giungere a una soggettività responsabile e autonoma.

Un viaggio, un cammino
Tutti quelli che hanno fatto un’esperienza spirituale seria, profonda e durevole, e
perciò tutti i maestri di spiritualità, descrivono la vita interiore come un itinerario, un viaggio,
un cammino, un pellegrinaggio. Questa simbolica ben si adatta alla vita interiore e spirituale,
perché in essa ci sono degli inizi, ci sono degli esodi, c’è un lasciare certe situazioni vissute e
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conosciute per andare verso nuove mete, verso nuove esperienze. Si è parlato a volte di un
tendere verso l’alto, di una scala da salire; altre volte, invero più raramente, di discesa oppure
di traversata di deserti in cui si incontrano diverse difficoltà, che scoraggiano o invitano a
tornare indietro. Ha detto Eraclito con lapidaria intelligenza: «La scala che scende e che sale è
sempre la stessa» (frammento 60 [DK]).
L’uomo sente dentro di sé, nel proprio cuore un invito, una voce segreta che lo chiama
a lasciare, ad abbandonare ciò che sta vivendo, per intraprendere un cammino: c’è una nuova
strada da percorrere! «Lekh lekha! Va’ verso te stesso!» (Gen 12,1), è la voce sentita da
Abramo quando ha intrapreso il suo viaggio di credente: il viaggio geografico che lo avrebbe
portato da Ur dei Caldei fino alla terra promessa si è compiuto innanzitutto nella sua vita
interiore, tramite una discesa nelle profondità del suo cuore. In questo senso è significativo
che i padri orientali, in particolare Gregorio di Nissa, leggano il cammino della vita interiore,
simboleggiato nell’esperienza di Abramo, come un’ékstasis, un’uscita da sé.
Ma nessuna illusione: il viaggio, il cammino non è mai assicurato né si presenta come
un avanzare diretto verso la meta, non è «un’inarrestabile ascesa» (Sal 49,19); anzi, è un
cammino in cui si vivono molte contraddizioni, in cui sono possibili degli avanzamenti
insperati ma anche delle regressioni impensabili, come appare anche nell’esperienza della vita
psicologica e affettiva… È un cammino umano, segnato dai punti di forza e dalle debolezze
che contraddistinguono ogni uomo, chiamato alla libertà ma tentato di restare schiavo degli
idoli falsi che in radice sono sempre – non lo si dimentichi – «un errore antropologico»
(Adolphe Gesché), una contraddizione al cammino di umanizzazione che è compito di
ciascuno di noi. Viaggio dunque per rientrare in sé, per andare al cuore delle cose e
comprenderle dal di dentro.

Tutti abbiamo delle domande che ci
abitano, delle voci che affiorano dal nostro profondo, ma occorre ascoltarle, lasciarle
emergere e quindi esaminarle e assumerle. Come non ricordare le parole con cui Rainer Maria
Rilke invitava un giovane poeta ad «aver care le domande per se stesse»?
Ci sono domande senza risposta facile, ci sono domande che restano tali e devono
accogliere l’enigma, ma occorre comunque farle e ascoltarle; a volte infatti sono per noi più
decisive delle eventuali risposte, che a volte non sono possibili. In proposito si pensi solo alla
domanda: «Perché il male, la sofferenza, la morte?». Chi non si fa domande vive
costantemente alla superficie di se stesso: fatiche, emozioni, reazioni, gioie e sofferenze, tutto
succede, ma tutto annega l’io profondo, tutto appare con poco senso…


Conoscere se stessi significa pertanto innanzitutto aderire alla realtà, conoscere
la propria relazione con la storia, gli altri, il mondo, perché è così che ciascuno di noi esiste ed
è coinvolto. Molti cammini spirituali appaiono a volte sterili, quando non negativi e
disumanizzanti, perché mancano di adesione alla realtà. È estremamente pericoloso iniziare il
cammino interiore o spirituale senza sentirsi come gli altri, in mezzo agli altri, bisognosi degli
altri e mai senza gli altri! Quante derive nella vita interiore e spirituale da parte delle persone
che si isolano, che non ascoltano più, che vivono solo delle proprie certezze e delle proprie
scoperte…
Conoscere se stessi è quindi un compito, una fatica, un esercizio quotidiano e richiede
di guardare, scrutare, esaminare il proprio sentire, parlare e agire. Oggi noi abbiamo la grazia
delle scienze umane che rendono all’esperienza spirituale un grande aiuto e un grande
servizio: possono infatti guidare la persona a una giusta conoscenza di sé e possono essere
veicoli di sapienza e strumenti di liberazione. Senza una certa conoscenza di sé è quasi
impossibile lo sviluppo della vita interiore, perché io sono ciò che sono, cioè anche tutto ciò
che mi ha fatto, che ha contribuito alla formazione del mio io...
Sì, esercitandosi a conoscere se stessi già si percorre il viaggio interiore!

Per conoscere se stessi, per comprendersi e interpretarsi occorrono delle condizioni
che favoriscano questo lavoro interiore, che permettano di concentrare gli sguardi e di
resistere alla dissipazione: occorre raccogliere le forze per «andare a fondo», per scendere
nelle proprie profondità e sperimentare la vita spirituale quale processo di gravidanza, in cui
si prende forma, si è generati, si rinasce – Gesù parla in proposito di «rinascita dall’alto»,
grazie allo Spirito santo (cf. Gv 3,3-8) –, si fa emergere ciò che è in noi e che noi non
siamo ancora...

Sappiamo bene quale fatica comporti
l’introdurre nella nostra vita spazi e momenti di solitudine: apprensione, ansia, anche disgusto
ci possono invadere quando incominciamo a stare in solitudine, in disparte; passare
dall’agitazione delle preoccupazioni quotidiane alla solitudine non è spontaneo ma richiede
una decisione, uno sforzo di volontà. In verità le distrazioni ci piacciono, il rumore interiore ci
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tiene compagnia, la presenza di altre voci e di diverse immagini ci avvolge e ci protegge da
noi stessi, da ciò che siamo in verità. «Diventa ciò che sei!» esortava Pindaro, ma noi
resistiamo a questa chiamata profonda che ci abita.
Se c’è vera solitudine c’è anche il silenzio, da intendersi non come mutismo ma come
distanza dalle voci, come possibilità di un ascolto «altro», ascolto di ciò che non è rumore,
chiasso, tono alto di voce, di ciò che non si impone e tuttavia parla: sì, perché anche il silenzio
è eloquente, parla e può essere ascoltato (cf. 1Re 19,12). La vita interiore ha bisogno di un
tempo di silenzio, che consenta ai nostri sensi di funzionare in modo semplice e naturale,
senza essere sollecitati artificialmente; ha bisogno di uno spazio «in disparte», di una volontà
non di fuga ma piuttosto di raccoglimento: nel linguaggio corrente si dice appunto che occorre
ritrovare se stessi – espressione curiosa! –, a indicare che si può essere perduti, smarriti…
Silenzio e solitudine permettono anche il fiorire della libertà personale, attraverso un
lavoro di umanizzazione progressiva, di crescita della capacità critica in grado di giudicare e
discernere tutte le offerte, di assunzione della soggettività. Bisogna saper dire «io» nella vita
interiore, anzi imparare a dirlo, per poter dire anche «noi» in modo autentico. Va detto in
modo forte: per poter vivere un cammino spirituale occorre assolutamente la libertà, una
libertà sottomessa alla prova ma sempre da afferrare e da confermare per poter avanzare.
Essere liberi desta paura, soprattutto nello spazio interiore dove forza d’inerzia, tentazioni di
benessere, incombenti sonnolenze sono sempre efficaci e attive. Ogni uomo è chiamato a
scrivere lui stesso la propria storia; non c’è fato né necessità e nulla è predeterminato. La
creazione, il fare della propria vita un’opera d’arte hanno assoluto bisogno della libertà: e non
c’è libertà né liberazione possibile senza la libertà interiore...

La vita spirituale cristiana implica un lavoro di discernimento che si configura come
attenzione, vigilanza, ascolto di ogni presenza e manifestazione dello Spirito, della Parola di
Dio, della vita nel suo multiforme manifestarsi. È un lavoro di accoglienza dello Spirito da
parte del nostro spirito, un lavoro nel quale sono associate memoria, intelligenza e volontà.
Noi siamo infatti abitati dalla memoria, ma questa va risvegliata, risuscitata come memoria
viva attraverso l’esercizio dell’intelligenza: solo in questo modo diventiamo capaci di leggere
in profondità il nostro passato e di rischiarare il nostro presente. E così sull’oggi possiamo
esercitare le nostre capacità di mobilitare energie e forze per il sentire e l’agire: questo è il
lavoro dell’intelligenza, dello spirito illuminato dallo Spirito santo...

Molte donne e molti uomini che sono
cresciuti come cristiani sincronicamente alla loro crescita umana non conoscono infatti questo
brusco cambiamento interiore ma piuttosto un processo di trasformazione. In ogni caso deve
esserci la consapevolezza di un decentramento da se stessi e di un’apertura verso un altrove,
un oltre… Quindi non per tutti i cristiani c’è un prima e un dopo rispetto alla conversione:
sempre però l’istanza di conversione dev’essere non solo presente ma sentita in modo forte. E
ciò che è veramente decisivo è la coscienza che all’origine della vita spirituale c’è la
presenza dello Spirito santo, condizione necessaria per tutte le conversioni e tutti gli itinerari
spirituali.

mercoledì 13 ottobre 2010

quel “non rompermi le balle…” non viene pronunciato da uno dei tanti...ma da me

Se una mendicante “rompe le balle” a un prete 
di Walter Verini
“Non rompermi le balle, vado di fretta”. La mendicante si lascia rimbalzare la frase addosso e, con una rassegnazione che le deve essere consueta, tende oltre la sua mano, sperando che il prossimo passante sia meno frettoloso e le allunghi una monetina. Sono le 8.12 di sabato 9 ottobre 2010, sedicesimo D.B.; Milano, Italia; Stazione di Porta Garibaldi. Fin qui, tutto normale. Se non fosse che quel “non rompermi le balle…” non viene pronunciato da uno dei tanti in ritardo sull’orario di partenza del proprio treno, ma da un religioso, un frate che in effetti va di fretta, attaccato a un trolley con piglio più simile a quello di un business man che a quello di un pronipote di Fra Galdino con la sua caritatevole bisaccia. “Alleluia” , è la spiritosa, immediata battuta che un cittadino in attesa del treno per Roma delle 8.34 fa seguire a quella bruttissima espressione , suscitando una amara ilarità tra gli astanti. “Non c'è più religione”, aggiunge un altro... A voler contestualizzare ci sarebbe anche poco di che stupirsi: siamo o non siamo in un Paese nel quale un altissimo esponente delle gerarchie vaticane ha recentemente “contestualizzato” perfino una bestemmia del presidente del Consiglio, assolvendolo senza neppure i tre canonici pater, ave, gloria? In questo quadro - si può pensare - ci può anche stare una sgradevole espressione proto-leghista nei confronti di una mendicante che tende la mano. Chissà, magari quel frate si è subito pentito. L'amarezza prevale presto sull'ilarità. Chissà che storia c'è, dietro quella mano che si tende. Una storia di emarginazione, di sfruttamento. Del resto il treno delle 8.34 sta per arrivare al binario 14 e non c'è tempo per stare lì a chiederselo. Tuttavia una domanda rimane sospesa : se quella reazione viene perfino da un religioso, allora forse vuol dire che qualche punto di non ritorno rischia davvero di essere troppo vicino. Sì, certo, non è possibile, non si deve generalizzare. Possono esistere anche singoli casi di religiosi, per così dire, “atipici” in una marea di preti, suore, frati, laici che vivono e testimoniano ogni giorno la loro fede a contatto con gli ultimi, con gli orrori del mondo. Così come sappiamo quanto la parole “solidarietà”, “inclusione”, “coesione” vivano diffusamente, ogni giorno, in questo Paese. E sappiamo che anche nel nostro campo, questi valori sono dominanti e, anzi, irrobustiti se coniugati ad altri temi quali il rispetto delle regole, delle leggi. Eppure quell'episodio ha colpito lì per lì le decine di persone in attesa di leggere il numero del binario sul display e interroga tutti noi. Ci sono parole, espressioni, tic quotidiani che spesso raccontano molto del tempo che stiamo vivendo. Quel “non rompermi le balle” ci lancia qualche segnale e qualche avvertimento. Chi ha avuto modo di ascoltarlo e di rifletterci un po' su l'altra mattina a Milano, stazione Porta Garibaldi, chi ha modo di ascoltare o vedere i mille episodi di microegoismo che certamente accadono ogni giorno davanti a noi o dentro di noi, però, non può dire di non aver sentito.

in “il Fatto Quotidiano” del 12 ottobre 2010

martedì 12 ottobre 2010

Un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla" (C. Pavese, Il mestiere di vivere)"


C’è un termine, poco conosciuto, per definire un certo "mal d’amore" ed è PHILOFOBIA, vale a dire la paura d’innamorarsi o di essere innamorati. Questa paura, nelle sue fasi acute o nei casi più estremi, si manifesta con gli stessi sintomi di un attacco d’ansia o di panico. Come sintomi abbiamo: dispnea, sudore eccessivo, nausea, tachicardia, agitazione ed altri sintomi tipici dell’ansia.
Quali le cause?
Le cause possono essere diverse, e la maggior parte  riconducibile ad una sorta di  "meccanismo di difesa" , non amiamo per non soffrire. Ci sono cause che definirei reattivo-situazionali, quali ad esempio una passata e profonda delusione sentimentale che ci ha profondamente ferito al punto di non volerne più sapere d’innamorarci per il timore di soffrire di nuovo o di essere nuovamente delusi.
Altre cause sono riconducibili all’aforisma di C.Pavese, cioè amare significa denudarsi, gettare la maschera esterna che spesso indossiamo, rivelare le nostre debolezze. Queste cause le ritroviamo, spesso, nelle persone che vogliono a tutti i costi, in tutte le situazioni, dimostrare d’essere forti e l’innamorarsi potrebbe, invece, rivelare tutta la loro debolezza interiore. Inoltre ci sono cause che affondano nella nostra infanzia, nel rapporto con i nostri genitori. Un  esempio, fra i tanti, richieste d’affetto ai propri genitori che non trovano risposta o anzi inducono una loro risposta negativa.
Personalmente ritengo che la paura d’amare è fra le peggiori delle paure, perché ci priva della più bella  delle componenti della nostra vita, quella d’amare e di essere amati.
dott. Cavaliere, psicologo

lunedì 11 ottobre 2010

che cosa fareste, se sapeste di non poter fallire?

"La creatività esige che si viva la tensione degli opposti, mentre l'Amante Demonio ci seduce con la promessa di togliercela.  Ecco perché, quando si presentano sentimenti o sensazioni tormentosi, il dipendente si butta sull'alcol o sulla droga, o su un'avventura romantica o sul potere o sui beni materiali - su qualsiasi cosa che gli tolga la tensione - invece di vivere in essa, di esaminare i sentimenti spiacevoli, denominarli e registrarli, di condividere le proprie intuizioni con gli altri, come fa l'individuo creativo.
(Linda Schierse Leonard, tratto da Testimone del Fuoco, Ed. Astrolabio)



Pensateci... pensate a quante occasioni da cogliere o per crescere perdiamo a causa delle nostre abitudini, dell'identificazione delle nostre azioni abitudinarie con la nostra stessa vita. E' come se noi non esistessimo al di fuori della nostra quotidianità, perfino quando di essa ci lamentiamo.
Ad esempio, camminiamo per strada - facendo per la decimillesima volta il percorso che abbiamo sempre fatto - senza prestare davvero attenzione alle cose che ci accadono attorno, proiettati già a quella che sarà la nostra giornata una volta arrivati in ufficio o in qualunque altro luogo ove ci stiamo recando. Chissà quante cose, che magari potrebbero cambiare la nostra vita - un volantino, un manifesto, una persona - non notiamo, persi come siamo nei nostri pensieri.

Molti di noi dichiarano di voler cambiare la propria vita, ma - a parte parlarne - non fanno nulla per farlo, anzi, perfino parlarne diviene un'abitudine, al pari delle altre.

Certo, può esserci timore di sbagliare, di rendersi ridicoli, di buttare via tempo ed energie per qualcosa che forse non funzionerà, senza rendersi conto che il tempo e le energie se ne stanno già andando per i fatti loro da un pezzo!

C'è qualcosa che vorreste fare, provare, tentare? Qualcosa che se funzionasse migliorerebbe voi e la vostra vita, e che non tentate per paura di fallire? Fatelo! Se non lo fate... avete già fallito.

Un notissimo motivazionista americano, Anthony Robbins, vi chiederebbe: che cosa fareste, se sapeste di non poter fallire?

domenica 10 ottobre 2010

In quel tornare indietro c'è tutta la grandezza dell'uomo

Monastero Janua Coeli  
XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (10/10/2010)
Vangelo: Lc 17,11-19   

Mentre essi andavano, furono purificati. Mentre andavano … una parola davvero per noi, che andiamo e, pur rendendoci conto del cambiamento che sta avvenendo in noi, non sentiamo l'urgenza di tornare indietro perché l'andare avanti ci prende, la ricchezza della novità, il poter recuperare il tempo perduto … Eppure non si può passare sotto silenzio la grandezza dell'amore ricevuto. Quante cose passano come "scontate" nelle nostre giornate! E non sono "scontate". Ce ne rendiamo conto quando un piccolo imprevisto ci blocca, ci rende incapaci di … Basta una congiuntivite allergica per impedirci di vedere nei dettagli o un malessere alla schiena per toglierci la libertà di movimento. Allora ci ricordiamo della preziosità della buona salute di cui mai rendiamo grazie. Un samaritano, uno straniero, ha apprezzato e riconosciuto il dono ricevuto. E proprio allo straniero viene riconosciuta da Gesù la fede, quella che gli altri non hanno dimostrato di avere. Lo stupore del ritrovarsi oggetto di amore, ecco il miracolo della fede. La vita di quest'uomo si è sanata interamente perché, andando dai sacerdoti, ha portato con sé anche l'incontro con Gesù. Il suo cuore si è allargato a molto di più che a un ritorno alla vita precedente. Nel suo tornare indietro a vivere il momento della guarigione con il Maestro ha dato alla sua vita il respiro dell'eternità.

Tornare indietro

MEDITAZIONE
Domande
Tornò indietro lodando Dio a gran voce … Hai provato mai a tornare indietro, negli spazi di vita già vissuta, per riconoscere i momenti di incontro con il Signore, momenti che sono stati l'inizio di tempi nuovi? In quel tornare indietro c'è tutta la grandezza dell'uomo. Chi non si esercita a far memoria della grazia ricevuta, non ha gli occhi per vedere neanche quella che attualmente riceve e sta sempre proteso a ricevere altro! Quanta ingratitudine ci abita …