venerdì 22 luglio 2016

qui nel pieno del petto vuoto,

Io accarezzo il silenzio. 
Il silenzio - che mi spedisci - tu. 
La prontezza della tua assenza la assaporo 
la mancanza - qui nel pieno del petto vuoto,
la sorseggio come un vino difficile, 
te la dono come una mano grande
aperta sotto la pioggia.

Chandra Livia Candiani

giovedì 21 luglio 2016

bisogna proprio smettere di giudicarsi. E' chiaro?


Mi sono spiegata?

E' chiaro ora che nessuno ti offende e che sei tu a farlo ?  
(dividendoti, confrontandoti, attribuendo autorità, incastrandoti in un gioco di potere, immedesimandoti in immagini...)

Insomma, qualcuno dirà o farà una certa cosa, ma sei tu che ti offendi.
 
Ora puoi riconoscere una trappola manipolatoria tremenda: l'autostima.
Quando ci sentiamo male il sistema consigliato dal think positive è di stimarci di più, quello di sostituire il giudizio negativo su di noi con uno positivo. Ti consigliano per esempio di affermare allo specchio "io sono bello, mi accetto, sono un vincente".
 
Ti intrappolano con domande tipo "sei come vuoi essere?", e nel rispondere assumiamo automaticamente i presupposti impliciti: devi essere qualcuno, se vuoi puoi, puoi sapere come sei, puoi cambiarti, essere diversi da come si è è desiderabile, insomma, ci illude della libertà di scegliere come essere mentre ci toglie quella di essere come siamo.

E' un invito ad autoffendersi, a dimostrare di essere come pensiamo di dover essere e intanto che ci alieniamo da quel che siamo.

Che orrore! E' un sistema per prendersi un po' di droga autoprodotta! 
Siamo indotti all'assuefazione e alla dipendenza. 
E saremo complici nel chiedere di manipolarci di più per procurarci una droga che non ci basterà mai.

Per smettere di offendersi non bisogna imparare a giudicarsi meglio o  cambiare il giudizio, bisogna proprio smettere di giudicarsi. E' chiaro?

Emma Rosenberg Colorni

mercoledì 20 luglio 2016

Saper tacere è una saggezza di pochi

Il silenzio per San Giovanni della Croce. "Tacere di sé è umiltà tacere i difetti altrui è carità tacere parole inutili è penitenza tacere a tempo e a luogo è prudenza tacere nel dolore è eroismo. Saper parlare è un vanto di molti Saper tacere è una saggezza di pochi saper ascoltare una generosità di pochissimi. Per possedere il Tutto non possedere nulla di nulla! Quando ti rifugi in qualche cosa cessi di lanciarti nel Tutto. Se vorrai possedere qualcosa del Tutto non hai posto il tuo tesoro nel Tutto!"

martedì 19 luglio 2016

Colmo di parole, tace.


La cella e il libro sono le stanze della solitudine e del silenzio.
Della solitudine, la cella, non casupola di frasche nel deserto, né carcere murato,
ma collocata al centro dell'uomo:
il cuore che mai non dorme,
vigile nell'ascolto,
metafora assoluta dell'abitacolo
e metonimia dell'intera persona umana.
Una cella segreta dove, al dire di Angela da Foligno,
«sta tutto il bene che non è qualche bene;
quel così tutto bene che non è nessun altro bene» (Memoriale, IX, 400). 
Del silenzio, il libro, deposito della memoria, antidoto al caos dell'oblio, dove la parola giace,
ma insonne, pronta a farsi incontro con passo silenzioso a chi la sollecita.
Amico discretissimo,
il libro non è petulante,
risponde solo se richiesto,
non urge oltre quando gli si chiede una sosta.
Colmo di parole, tace.

Tacet. Elogio del buon tacere
di Giovanni Pozzi

lunedì 18 luglio 2016

la sorte della parola ballerina

Incrociarsi senza salutarsi,
stiparsi senza toccarsi,
fissarsi con sguardo fuggitivo,
incontrarsi senza un legame in una solitudine di massa irrequieta,
tale è la sorte della parola ballerina sullo schermo.
Potrà ancora l'anima dimorare nelle stanze della quiete?
E, come Maria,
nel silenzio del fiat mihi
concepire e generare la Parola?
Potrà l'uomo accedere ai percorsi della lectio e dell'oratio
per salire alla vetta della contemplatio? (...)

Tacet. Elogio del buon tacere
di Giovanni Pozzi

domenica 17 luglio 2016

lo affonda nello spirito; l'altra ve lo estrae e lo effonde


La scrittura si depone nel silenzio
quanto la lettura,
ma con un moto inverso:
l'una attinge dall'alfabeto il senso
e lo affonda nello spirito;
l'altra ve lo estrae
e lo effonde sulla pagina
tracciandone il sentiero.
È un cammino silenzioso.
L'inchiostro gocciola senza gemere,
la penna scorre sul liscio del foglio senza grattare.
Riempita la pagina, le curve e le aste dei caratteri
disegnano sul bianco del foglio armonici contorni come quelli dei fiori sul piano dell'aiuola a formare un tutt'uno solitario.
Emanano il senso come quelli il profumo. 
È un incanto esiliato dalle macchine scrivane,
con il loro ticchettio oscillante.
Opera delle dita mosse da mani inerti e fisse,
e non dalla mano intera che avanza con passo sincrono col corso della parola,
il testo scritto a macchina esce al mondo
per operazione cesarea
e non per parto naturale.
Tanto più nella nuova rappresentazione elettronica,
che rompe il legame tradizionale fra il supporto e la scrittura,
inseparabili finora. 
La stabilità stessa del testo si dilegua,
 la compattezza si frantuma.
La ricezione dell'ascolto è simultanea alla riproduzione del messaggio senza intervallo di memoria,
le dita non mediano, dominano.
I caratteri non rappresentano più il silenzio eloquente del testo impresso sulla pagina bianca,
ma la loquacità muta della folla metropolitana. 

Tacet. Elogio del buon tacere
di Giovanni Pozzi