sabato 12 aprile 2014

34° giorno La chiamata degli Apostoli e il loro invio non comporta infatti la sostituzione di Lui. Gli Apostoli, e tutti i pastori della Chiesa, non sostituiscono un Assente, ma soltanto rendono visibile Colui che è invisibilmente Presente.


 Il primo versetto chiave del testo di Ezechiele riguarda la presenza di un solo re e di un solo pastore, due immagini che poi torneranno sia separatamente sia insieme nelle parole di Cristo. In modo particolare, nel vangelo di Matteo, il Maestro unificherà queste due categorie nel capitolo 25, dove Cristo nel suo ritorno glorioso si presenta come un re, ma al tempo stesso come un pastore, che passa in rassegna le sue pecore e le divide. Il testo di Ezechiele pone l’accento sull’unicità di un tale pastore; ciò significa che non vi sono più pastori: l’umanità ha un solo Maestro, un solo Pastore, un solo punto di riferimento esistenziale. Dal punto di vista pratico, però, continueranno ad esserci molti pastori, ma sarà soltanto Lui ad agire in loro. La chiamata degli Apostoli e il loro invio non comporta infatti la sostituzione di Lui. Gli Apostoli, e tutti i pastori della Chiesa, non sostituiscono un Assente, ma soltanto rendono visibile Colui che è invisibilmente Presente. Perciò non esistono tanti pastori, quanti sono gli uomini mandati ad annunciare il vangelo, ma esiste un solo Pastore, che attraverso i pastori umani, Lui, personalmente guida la Chiesa. “Il mio servo Davide sarà su di loro e non vi sarà che un unico pastore”. La molteplicità dei pastori umani è solamente un aspetto esteriore, visibile, ma la realtà carismatica che esso nasconde è l’unicità del Pastore, che opera sempre attraverso i singoli pastori umani. I pastori umani dunque non sostituiscono un assente ma costituiscono il segno della sua Presenza. All’interno di questo oracolo del ritorno, che si incentra sull’unicità del pastore, in quanto il raduno non può avvenire intorno a diversi nuclei, ma attorno ad un unico punto d’attrazione, tale movimento di ritorno è definito come un’esperienza di guarigione interiore: “Li libererò da tutte le ribellioni con cui hanno peccato”; questo verbo costruito al futuro, “libererò”, conferisce una tonalità particolare alla ribellione con cui l’uomo esprime di solito la propria autonomia ed emancipazione. Quando l’uomo si ribella ha infatti l’impressione di dominare qualcosa, di conquistare il potere, mentre il Signore considera la ribellione come una malattia dello spirito, da cui l’uomo ha bisogno di essere liberato. Non è infatti l’uomo che domina; è piuttosto la potenza della ribellione che domina l’uomo, al punto tale da beffarlo, facendolo credere tanto più realizzato quanto più è irriconoscente, e tanto più libero, quanto più è autonomo nel dirigere la propria vita. Il nemico del genere umano è infatti molto astuto e si guarda bene, dopo avere imprigionato la sua vittima, dal farle prendere coscienza del suo stato. Anzi, la ipnotizzerà con l’illusione della libertà. Il raduno intorno all’unico Pastore sarà un’esperienza di liberazione da tutto ciò che seduce e inganna, sarà un antidoto contro il delirio della volontà di potenza, un antidoto formato dal Sangue dell’Agnello. La liberazione è anche un’esperienza di purificazione: “Li purificherò e saranno il mio popolo”; questi due termini, libertà e purificazione, sono accostati non a caso; infatti, da un lato l’uomo è liberato dal tiranno che lo domina, ma dall’altro viene anche purificato dalla lordura della schiavitù, che è la macchia della colpa. Va notato che quest’opera di purificazione è compiuta direttamente da Dio, non è perciò un’opera umana di semplice rinuncia al male. Infatti, non è possibile con le sole forze umane compiere una purificazione del cuore così profonda da poter diventare “popolo di Dio”. E’ chiaro che l’uomo purifica gli aspetti più esterni del suo peccato, ma sarà Dio a purificarne le radici interiori, nel cammino di fede, nell’ascolto assiduo della Parola e nella vita sacramentale.  
Don Vincenzo Cuffaro

venerdì 11 aprile 2014

33° giorno Proprio in questo punto il modello umano di Cristo introduce una novità: in Lui troveremo solo l’affidamento della propria causa a Dio, ma non la richiesta di punizione.


 In questo capitolo 20 di Geremia, che riporta una sezione delle cosiddette “confessioni” del profeta, e che costituisce la prima lettura odierna, è tratteggiata in modo drammatico l’atmosfera di sospetto che lo circonda, mettendo in serio pericolo la sua stessa vita. In questo testo, così vicino alla figura di Cristo sotto l’aspetto del mistero della persecuzione subita dall’uomo giusto e fedele alla Parola di Dio, vi sono tuttavia elementi di contrasto con quello che in Cristo si rivela come un atteggiamento nuovo, e in un certo senso inedito, nei confronti dei propri nemici. Da un lato il profeta Geremia consegna la sua causa a Dio, dall’altro esprime il desiderio e il bisogno del suo cuore di ottenere una rivalsa o una vendetta su chi insidia la sua vita. Egli, infatti, desidera vedere la punizione divina abbattersi sui suoi nemici. La sua preghiera è improntata ad una visione delle cose che spesso ricorre nei salmi di genere imprecatorio; si tratta infatti di una preghiera che chiede a Dio la punizione dei propri nemici: “Signore degli eserciti possa io vedere la tua vendetta su di essi, poiché a te ho affidato la mia causa”. Proprio in questo punto il modello umano di Cristo introduce una novità: in Lui troveremo solo l’affidamento della propria causa a Dio, ma non la richiesta di punizione. Essa infatti si è già interamente abbattuta su di Lui. Geremia, nel chiedere a Dio vendetta sui propri nemici, svela i suoi limiti veterotestamentari, ossia la sua appartenenza a una fase della rivelazione ancora incompleta e bisognosa di perfezionamento. Dall’altro lato, la preghiera imprecatoria di Geremia contiene una verità che fa eco, in qualche modo, all’insegnamento del Deuteronomio circa la sofferenza d’Israele nel deserto: “Signore degli eserciti che provi il giusto e scruti il cuore e la mente”. Questa preghiera è un’eco di quelle parole del Deuteronomio, dove si dice che Dio ha fatto passare Israele attraverso la prova per conoscere quello che aveva nel cuore, ma in realtà non è Dio che ha bisogno di conoscere il cuore umano, nel quale Lui legge senza difficoltà, siamo piuttosto noi che, attraverso la prova, giungiamo a un grado maggiore di conoscenza di noi stessi. Non sapremo mai, ad esempio, se siamo veramente capaci d’ubbidienza, se non si verificheranno delle circostanze nelle quali la nostra ubbidienza diventi difficile e sofferta, ma accettata tuttavia di buon grado. Non sapremo mai se saremo in grado di perdonare davvero il nostro prossimo, se nessuno ci affligge, ci offende o ci perseguita.  
Don Vincenzo Cuffaro

giovedì 10 aprile 2014

32° giorno In tal modo Abramo anticipa l’atteggiamento del discepolato, in quanto non sovrappone alla Parola di Dio la propria. Egli non pronuncia alcuna parola umana di fronte alla Parola di Dio, come un vero discepolo resta prostrato nella venerazione della Parola, accoglie quello che Dio gli svela come pure quello che gli nasconde.


 Nella prima lettura questa venerazione della Parola di Dio, che introduce nel discepolato, si coglie in Abramo attraverso il suo silenzio; di lui infatti non è riportata alcuna parola. In tal modo Abramo anticipa l’atteggiamento del discepolato, in quanto non sovrappone alla Parola di Dio la propria. Egli non pronuncia alcuna parola umana di fronte alla Parola di Dio, come un vero discepolo resta prostrato nella venerazione della Parola, accoglie quello che Dio gli svela come pure quello che gli nasconde. La rivelazione destinata ad Abramo riguarda, infatti, alcune cose, che egli accoglie così come gli sono date. E non presume di sapere di più. La lettura di Genesi si conclude con l’esortazione: “Da parte tua devi osservare la mia alleanza”. Questo tema dell’Alleanza osservata, e del discepolato nei confronti della Parola, ritorna intatto nel discepolato personale di Gesù, che, come uomo, vive un suo discepolato rispetto al Padre. Come Verbo Egli è identico al Padre, ma in quanto uomo gli è inferiore. Infatti, parlando ai Giudei, Cristo si esprime con una impressionante sincerità: 
Se dicessi che non lo conosco sarei come voi un mentitore. Ma lo conosco e osservo la sua parola”. 
Ciò implica che l’osservanza della Parola di Dio è compiuta persino da Cristo, nella sua veste umana di Messia; Egli, che nei nostri confronti è l’unico Maestro, nei confronti del Padre è il primo discepolo, primo custode della sua Parola. Se da un lato Cristo si presenta come discepolo del Padre - e in forza del suo discepolato Egli diventa appunto il Maestro dell’umanità -, dall’altro lato assume esplicitamente una posizione di uguaglianza rispetto al Padre: 
Prima che Abramo fosse Io Sono”. 
A nessuno che conosca bene il libro dell’Esodo può sfuggire che la formula “Io Sono” è il nome di Dio rivelato a Mosè sul Sinai. Cristo non ha commesso qui un errore di sintassi, è piuttosto il linguaggio umano a mostrare la sua incapacità di dire l’inesprimibile. Cristo non “era” prima che Abramo fosse, ma semplicemente “è”. Inoltre, attribuendo alla sua Parola una potenza di vita, ossia una efficacia capace di mutare la realtà, è chiaro che la sua posizione viene a coincidere con quella del Dio d’Israele.  

mercoledì 9 aprile 2014

31 giorno La fedeltà alla Parola è allora la condizione abituale di libertà del discepolo.


 Le letture bibliche che la Chiesa ci fa leggere oggi ruotano intorno al tema della liberazione, che ricorre in entrambi i testi con alcune analogie. Il testo del profeta Daniele, che costituisce la prima lettura odierna, narra la vicenda dei tre compagni condannati alla fornace per non avere accettato di aderire a un culto idolatrico. Il re Nabucodonosor, simbolo della divinizzazione del potere, si esprime così: “Quale Dio vi potrà liberare dalla mia mano?”. Nella fornace ardente, però, i tre giovani diventano quattro e il quarto, che rende innocuo il fuoco, somiglia ad un figlio di dèi. Il tema della liberazione così si collega in modo chiaro e preciso, nel brano evangelico odierno, ad un atto compiuto proprio dal Figlio di Dio che, quando libera l’uomo, lo libera davvero. Non si tratta, cioè, di una libertà apparente. Essere liberi davvero è quindi una condizione in contrasto con quella libertà che sembra tale, ma non lo è.
La liberazione che Cristo compie avviene nel contesto del discepolato, mediante la potenza della sua Parola: “Se rimanete fedeli alla mia parola sarete davvero miei discepoli, conoscerete la Verità e la Verità vi farà liberi”. La fedeltà alla Parola è allora la condizione abituale di libertà del discepolo. I versetti chiave che vogliamo mettere in evidenza ci permettono di specificare ulteriormente la natura di questa liberazione operata dal Figlio e sperimentata dall’uomo lungo il cammino del discepolato. La natura di questa liberazione è piuttosto complessa, nel senso che non consiste nella semplice rimozione dell’ostacolo o della minaccia. All’interno del racconto certamente ci sono due poli: il polo della sapienza della terra, o della potenza del mondo, rappresentata dalla statua d’oro e dalla molteplicità degli strumenti musicali, elencati come immagine della gioia terrestre, della coreografia della gloria umana; e dall’altro lato il polo del servizio di Dio. Qui si concentra il tema della liberazione con un paio di sottolineature che possiamo cogliere dai versetti chiave.  
Don Vincenzo Cuffaro

martedì 8 aprile 2014

30° giorno in quella occasione, come in questa, l’innalzamento del Figlio dell’uomo è collegato a un atto di fede da cui si può sprigionare tutta la potenza salvifica di questa sorgente di guarigione che è la croce.


 Oggi la liturgia della Parola accosta due brani tratti rispettivamente dal libro dei Numeri e dal vangelo di Giovanni. Questi due brani sono collegati in ragione di un evento, che si presenta nel testo dei Numeri come simbolo e nelle parole di Cristo come realtà: nel deserto a Mosè è chiesto di innalzare un’asta e su di essa porre un serpente: “Perché chiunque, dopo essere stato morso, lo guarderà, resterà in vita”. Nel suo dialogo con i farisei Cristo si riferisce a questo evento narrato dal libro dei Numeri, applicandolo però a Se Stesso: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo allora saprete che Io Sono”. L’innalzamento del Figlio dell’uomo, in riferimento al testo dei Numeri, si era già presentato nel dialogo notturno con Nicodemo; e in quella occasione, come in questa, l’innalzamento del Figlio dell’uomo è collegato a un atto di fede da cui si può sprigionare tutta la potenza salvifica di questa sorgente di guarigione che è la croce. Non era il serpente sull’asta che guariva gli ebrei colpiti dal morso velenoso, bensì la fede nella Parola di Dio; in modo del tutto analogo, la croce su cui è stato innalzato il Figlio dell’uomo, si rivela come salvezza a chiunque crede. Nel dialogo notturno con Nicodemo, Cristo aveva annunciato il suo innalzamento come fosse prefigurato profeticamente da quell’asta innalzata da Mosè nel deserto, aggiungendo: “perché chiunque creda in Lui non muoia”.
Il tema della fede come sorgente di salvezza ritorna di nuovo, in collegamento con l’annuncio dell’innalzamento del Figlio, nelle parole conclusive del vangelo odierno, questi due elementi – cioè l’innalzamento del Figlio e la fede salvifica - sono ancora una volta accostati dall’evangelista: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo allora saprete che Io Sono”. E il testo si conclude: “E a queste sue parole molti credettero in Lui”. L’innalzamento del Figlio dell’uomo da solo non è dunque sufficiente a produrre la salvezza, se non si congiunge con un atto di fede personale.  
Don Vincenzo Cuffaro

lunedì 7 aprile 2014

29° giorno La preghiera di Susanna non cade dunque nel vuoto. Il Signore ascolta il grido dei suoi servi e suscita un intercessore che in quel momento riapre il processo, capovolgendo i termini dell’accusa,


 Il racconto della vicenda di Susanna dimostra pure che Dio non lascia mai in balia di un giudizio ingiusto i suoi servi. La preghiera di Susanna non cade nel vuoto, quando si rivolge a Dio dicendo: “Dio eterno, che conosci i segreti, che conosci le cose prima che accadano, tu lo sai che hanno deposto il falso contro di me. Io muoio innocente di quanto essi iniquamente hanno tramato contro di me”. È una preghiera breve, sobria, fatta di parole essenziali, che dicono tutta la sua realtà personale di rettitudine e nello stesso tempo tutta la sua grande statura, come grandi sono tutti coloro che vivono nella luce di Dio. “Il Signore ascoltò la sua voce e mentre Susanna era condotta a morte il Signore suscitò il santo spirito di un giovinetto chiamato Daniele”. La preghiera di Susanna non cade dunque nel vuoto. Il Signore ascolta il grido dei suoi servi e suscita un intercessore che in quel momento riapre il processo, capovolgendo i termini dell’accusa, in modo tale che coloro che testimoniavano contro di lei si ritrovano invece essi stessi sul banco degli imputati. È in fondo quello che Cristo annuncia dello Spirito come Colui che convince il mondo quanto alla giustizia, quanto al giudizio, quanto al peccato. Lo Spirito riapre infatti il processo a Gesù, e lo riapre nelle coscienze degli uomini per capovolgere i termini della questione, perché sia chiaro che i veri colpevoli sono coloro che lo hanno condannato.  
Don Vincenzo Cuffaro

domenica 6 aprile 2014

L’obiettivo principale della vita cristiana non è quello di compiere delle opere buone, ma quello di essere afferrati e abitati dallo Spirito di Cristo


 Il testo della lettera ai Romani descrive 
la condizione del cristiano nella fase della sua maturità spirituale, 
ovvero la condizione di chi è abitato, posseduto e guidato dallo Spirito di Dio. 
Per l’Apostolo Paolo non esiste in concreto un uomo capace di pensare e di decidere del proprio destino senza subire l’influsso di magnetismi extraumani che agiscono sui processi del suo pensiero. Chi non sa distinguere le molteplici forze che influiscono sulla sua interiorità
rischia di cadere nella convinzione errata di essere l’autore di tutto ciò che sorge nel suo cuore. 
L’opera di questa distinzione si chiama “discernimento”
Il cristiano, illuminato dallo Spirito di Dio, pone al vaglio tutti i suoi pensieri, 
perché sa bene che 
alcuni di essi sono suggeriti da Satana 
e altri da Dio, 
altri ancora dalla propria stessa sensibilità o dai condizionamenti ambientali. 
Solo dopo questa accurata distinzione,
egli decide cosa ascoltare, e se seguire il corso dei pensieri oppure interromperlo. 
Questo processo di discernimento avviene sotto la presidenza dello Spirito Santo
perché la mente umana, appoggiandosi al suo lume naturale, 
non sarebbe in grado di farlo senza cadere in errore. 
In definitiva, l’impossibilità di un pensare autonomo in senso assoluto 
si traduce per l’uomo in due vie, 
che in fondo sono entrambe delle condizioni di “possessione”, 
con la conseguenza che la prima, 
quella del peccato, è umiliante, 
mentre la seconda 
è l’espressione più alta della libertà
perché si è posseduti dallo Spirito di Dio, dolce e liberissimo. 
Infatti, Paolo descrive il peccato non tanto come una scelta sbagliata che uno può fare, 
ma come una potenza che esercita il suo dominio sull’essere umano 
che si lascia muovere da tale forza umiliante. 
Dall’altro lato, non gli bastano le sue risorse, qualora volesse liberarsene, 
perché solo l’ingresso di Cristo e la potenza del suo Sangue può spezzare ogni schiavitù. 
Allora la libertà totale non è affatto quella di una conquista di uno spazio neutro tra Satana e Dio, 
ma consiste nella possibilità di essere in Cristo Gesù, partecipando della sua stessa vita, 
la quale gode di una somma libertà, 
in quanto non è soggetta ad alcuna legge, 
se non a quella dell’amore. 
Stando così le cose, lo Spirito Santo si colloca al centro direttivo della nostra personalità, impedendo ad altre forze di condizionare la nostra vita. 
Chi può trasformare interiormente è soltanto Colui che è capace di abitare dentro di noi: lo Spirito di Dio. 
Quindi non si tratta ancora una volta di consegnare noi stessi come servi di qualcuno, 
ma l’essere al servizio dello Spirito Santo è l’esperienza più radicale di libertà. 
Quando nel nostro linguaggio cristiano parliamo di libertà, e diciamo di essere liberi, 
ci riferiamo alla inabitazione dello Spirito, 
perché 
dove c’è lo Spirito del Signore, 
c’è libertà” (2 Cor 3,17).
Dal momento del battesimo in poi, avvengono una serie di trasformazioni, 
che cominciano dal progressivo abbandono della logica umana
Voi però non siete sotto il dominio della carne, 
ma dello Spirito, 
dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi” (v. 9). 
Il dominio della carne è appunto la prevalenza dei pensieri dell’io umano. 
Significa che siamo passati da un padrone ad un altro: 
anche il fatto di essere al servizio di se stessi è umiliante 
come qualunque servizio reso a ciò che non è Dio. 
Se questa trasformazione si verifica davvero, 
si comincia a sperimentare alcune cose come elementi di novità osservabili nella propria vita (cfr. Rm 8,5). 
Solo lo Spirito Santo può orientare il nostro pensiero verso le verità eterne e farcele amare. 
Allora bisogna porre la dovuta attenzione anche ai contenuti del nostro pensiero, 
i quali, come i sintomi per un medico, 
ci permettono di capire da chi siamo abitati, 
e conoscere quale spirito esercita su di noi la sua influenza. 
L’influsso dello spirito del male produce 
una chiusura dei pensieri dell’uomo nell’aldiqua, 
una specie di incatenamento nelle cose, nelle circostanze contingenti, nelle realtà 
che iniziano e finiscono nella vita quotidiana, 
ma che vengono vissute come se fossero assolute; 
questi sintomi sono indicativi e svelano eloquentemente 
chi è il padrone al quale stiamo rendendo il nostro servizio
Al contrario, 
l’essere posseduti, invasati dallo Spirito di Cristo, 
produce cambiamenti sostanziali; 
prima di tutto nei contenuti del pensiero, 
che viene liberato dalla schiavitù delle cose terrene, 
da questo orizzonte chiuso su se stesso. 
Così la nostra mente comincia a spaziare nella speranza, 
priva di confini, dei beni eterni, amati e desiderati come se già in qualche modo si conoscessero. 
Il Signore, infatti, non vuole che restiamo chiusi e incatenati nel piccolo spazio dell’aldiqua. 
Il trasferimento da tali angustie mentali alle visioni aperte di ciò che è eterno, 
è esso stesso un’esperienza divina di liberazione del nostro pensiero, 
che viene tirato fuori dall’asfissia della sapienza terrestre. 
La trasformazione dei contenuti del pensiero è necessaria, 
perché l’uomo sperimenti il passaggio dalla schiavitù 
che umilia alla servitù che invece innalza verso le altezze e verso la dignità dell’essere figli. 
A questo riguardo l’Apostolo è molto preciso: 
Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, 
non gli appartiene” (v. 9). 
Non è un problema di essere brave persone o onesti cittadini, 
occorre invece sapere da quale spirito siamo abitati e mossi. 
L’obiettivo principale della vita cristiana non è quello di compiere delle opere buone, 
ma quello di essere afferrati e abitati dallo Spirito di Cristo. 
Questa è l’esperienza divina di libertà 
che il cristianesimo promette a tutti coloro che si sottomettono a Dio.
Don Vincenzo Cuffaro