sabato 1 giugno 2013

un piccolo rinfresco prima di ritornare a casa per la vera celebrazione del pranzo domenicale

Un’altra area nella quale 
possiamo facilmente incontrare l’insuccesso e lo scoraggiamento 
è quella della creazione della comunità parrocchiale. 
Le parrocchie non sono sempre quelle belle comunità di cui leggiamo nei libri di teologia. 
Incontrando il consiglio della Conferenza nazionale dei sacerdoti, 
un sacerdote mi espresse la sua frustrazione 
perché troppo spesso 
la parrocchia era vista più come una stazione di servizio 
che non come una genuina comunità. 
La gente, diceva, si accontenta di una capatina in chiesa 
per una messa fugace anziché riunirsi attorno all’altare come popolo di Dio. 
Il gruppo liturgico parrocchiale cerca di preparare una festa copiosa, 
ma molte persone si accontentano di un piccolo rinfresco 
prima di ritornare a casa per la vera celebrazione del pranzo domenicale. 
Tutto questo non sorprende. 
Nella città moderna il territorio parrocchiale è tracciato 
prescindendo da qualsiasi senso naturale della comunità. 
Il sacerdote considera la parrocchia come la sua principale comunità, 
ma per molta gente, invece, essa occupa uno degli ultimi posti 
nella lista dei luoghi di appartenenza, 
dopo le loro case, i club calcistici, le scuole dei loro figli e i posti di lavoro. 
Tutto questo può insinuare nel sacerdote l’idea del fallimento, 
di non essere riuscito 
a radunare la gente attorno all’altare 
e di costruire una comunità eucaristica. 
Non è mio compito guardare al futuro della parrocchia territoriale e proporre eventuali alternative; 
mi limito qui ad esprimere un semplice punto di vista, 
ossia che qualsiasi comunità che cerchiamo di formare spesso 
è destinata in certo senso al fallimento perché il regno di Dio non è ancora venuto. 
Ogni comunità cristiana, 
sia che si tratti di una parrocchia, di un priorato dei domenicani o della “Legio Mariae”, 
è un simbolo difettoso e incrinato della comunità a cui aspiriamo, 
quella del Regno. 
Se una parrocchia avesse troppo successo potremmo commettere 
l’errore di pensare che il Regno è arrivato e di scambiare il parroco col Messia. 
(Timothy Radcliffe, Chiamati ad irradiare gioia).

venerdì 31 maggio 2013

questo Dio che ci libera dall’incubo di un Dio che limita, di un Dio che minaccia, di un Dio che punisce, che svalorizza la nostra esistenza.

Fino ad oggi non conoscevo l'autore che cito. Poi leggo qualcosa e scopro che mi si apre un oceano su cui vorrei navigare per sentire sul volto i venti che lo percorrono. In più proprio oggi lo vedo citato in un blog che seguo http://scuoladelsilenzio.blogspot.it/2013/05/maestro.html.

Si capisce allora perché la prima beatitudine è quella della povertà:
“Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno dei cieli”. 
La beatitudine della povertà è quella di Dio. 
Dio non è il sommo padrone che possiede tutto. 
Dio è il più grande povero, che non possiede nulla. 
Qui salta agli occhi la differenza enorme tra la nozione comune di divinità [...], 
quella della stragrande maggioranza dei cristiani e 
in genere di tutti i credenti 
che si dicono tali 
e che vedono in Dio il grande proprietario, 
il grande ricco che tutto può, 
che non può essere toccato da nulla, 
tanto è sicuro e difeso dalle sue ricchezze, 
che domina con tutta la sua potenza, 
che ci lascia cadere con parsimonia le briciole della sua tavola 
e ci domanda un conto feroce dell’uso che ne facciamo... la differenza, dicevo, 
tra questa divinità e il vero Dio. 
Il vero Dio, il Dio cristiano, il Dio che si rivela in Gesù Cristo, 
è un Dio che ha perso tutto eternamente. 
Per questo non può perdere niente. 
Ha donato tutto eternamente e non può donare di più, 
perché questo dono lo costituisce nel suo essere persona fondato unicamente sulla carità. 
Tale Dio, così diverso dal Dio pensato dagli uomini,
persino dai profeti dell’Antico Testamento, 
questo Dio del quale solo Cristo può testimoniare, 
perché è l’unico a vivere di lui in maniera unica, 
questo Dio che ci libera dall’incubo 
di un Dio che limita, 
di un Dio che minaccia, 
di un Dio che punisce, 
che svalorizza la nostra esistenza. 
Porre fine a tale concezione, 
significa porre fine a tutti i nostri terrori, 
a tutte le nostre schiavitù, 
a tutto ciò che fa di Dio una caricatura, un idolo, e dell’uomo uno schiavo, un mendico. 
(Maurice Zundel, Stupore e povertà).

giovedì 30 maggio 2013

come può comunicare i segni della Pasqua? .

Ora, sappiamo dove si fa la Pasqua, e ne sappiamo anche la strada, 
che passa attraverso i segni dei chiodi. 
Non ce n’è un’altra. 
Noi cristiani abbiamo fretta di vedere i segni della Pasqua del Signore, 
e quasi gli muoviamo rimprovero di ogni indugio, che fa parte del mistero della Redenzione. 
I non-cristiani hanno fretta di vedere i segni della nostra Pasqua, 
che aiutano a capire i segni della Pasqua del Signore. 
Un sepolcro imbiancato, che di fuori appare lucente, 
ma dentro è pieno di marciume, non è un sepolcro glorioso. 
Chi mette insieme pesanti fardelli per caricarli sulle spalle degli altri, 
senza smuoverli nemmeno con un dito, 
è fuori della Pasqua. 
Chi fa le sue opere per richiamare l’attenzione della gente, 
invitando stampa e televisione, 
non vede la Pasqua
Chi chiude il Regno dei Cieli in faccia agli uomini per mancanza di misericordia, 
non sente la Pasqua
Chi paga le piccole decime e trascura la giustizia, la misericordia e la fedeltà, 
rinnega la Pasqua. 
Chi lava il piatto dall’esterno, mentre dentro è pieno di rapina e d’intemperanza, 
non fa posto alla Pasqua. 
Oggi è Pasqua, anche se noi non siamo anime pasquali: 
il sepolcro si spalanca ugualmente, 
e l’alleluia della vita esulta perfino nell’aria e nei campi; 
ma chi sulle strade dell’uomo, questa mattina, 
sa camminargli accanto e, lungo il cammino, risollevargli il cuore? 
Una cristianità che s’incanta dietro memorie 
e che ripete, senza spasimo, gesti e parole divine, 
e a cui l’alleluia è soltanto un rito 
e non ha trasfigurante irradiazione della fede e della gioia nella vita che vince il male e la morte dell'uomo, 
come può comunicare i segni della Pasqua? .
(Primo Mazzolari, La Pasqua).

mercoledì 29 maggio 2013

Nella riconciliazione muore l’uomo vecchio che giudica se stesso. Siamo così liberi di camminare nella novità della vita divina


Guarigione come riconciliazione

Anselm Grün

5. Riconciliazione e guarigione

La vera e propria malattia del nostro tempo – ci dice la psicologia – è la mancanza di relazione (di riferimenti). Gli uomini non sono capaci di mettersi in relazione con se stessi, e neppure con le cose, con gli altri e con Dio. La riconciliazione è il mezzo per mettersi in relazione con tutto quello che c’è in me, così da non escludere più niente dal mio vero Sé. Colui che mette tutto in relazione con il Sé più intimo, il Cristo in noi, è totalmente risanato e salvo, e sperimenta se stesso come un uomo nuovo. Per Paolo riconciliazione è un altro concetto (un sinonimo) per esprimere la redenzione. Sulla croce Dio ha riconciliato a sé gli uomini con tutte le loro contraddizioni. L’uomo lacerato diventa in tal modo risanato e integro, si sente un essere nuovo. Le cose vecchie sono veramente passate. In Cristo l’uomo ha trovato la sua nuova identità, un’identità in cui egli non ha più bisogno di escludere niente, né da se stesso, né davanti a Dio. Ha la capacità di vedere con occhi nuovi se stesso e anche il mondo attorno a sé. Da lui la riconciliazione si espande in tutto l’ambiente in cui vive. In tal modo, per suo mezzo, anche il mondo che lo circonda viene ri-creato. Nella riconciliazione muore l’uomo vecchio che giudica se stesso. Siamo così liberi di camminare nella novità della vita divina (cf. Rm 6,4). La «novità di vita» non è un’affermazione puramente teologica, ma si riferisce alla nostra esperienza. Chi si riconcilia con se stesso, vive se stesso in modo diverso da prima. Non vive più sul piano del rifiuto o della estraniazione da sé, bensì come una persona unificata nel proprio intimo, rinnovata, riconciliata e capace di donare riconciliazione agli altri.

Anselm Grün
scrittore, terapeuta, monaco dell’abbazia benedettina
di Münsterschwarzach (Germania)

martedì 28 maggio 2013

La riconciliazione è un percorso importante per giungere alla guarigione.


Guarigione come riconciliazione

Anselm Grün

5. Riconciliazione e guarigione

La riconciliazione è un percorso importante per giungere alla guarigione. Guarire non significa che Dio ci toglie e fa sparire le nostre piaghe, bensì che noi apriamo le nostre piaghe per Dio e in lui diventiamo sani e integri. Le piaghe fanno parte della nostra identità, non ci separano né da Dio né dal nostro vero Sé. Al contrario aprono in noi una breccia che ci fa scoprire il nostro vero Sé, l’immagine originaria e autentica di Dio in noi. Chi si riconcilia con se stesso, con gli uomini e con Dio, sente di essere una persona nuova. Paolo lo ha formulato così: «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova: le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17).

Anselm Grün
scrittore, terapeuta, monaco dell’abbazia benedettina
di Münsterschwarzach (Germania)

lunedì 27 maggio 2013

Quando vedo che Gesù in croce perdona ai suoi uccisori, posso confidare che in me non c’è nulla che non possa essere perdonato.


Guarigione come riconciliazione

Anselm Grün

4. Riconciliazione con Dio

Il messaggio fondamentale della Bibbia è che Dio ha riconciliato gli uomini con sé. Dio non ha bisogno di essere riconciliato, perché egli è per essenza amore e misericordia. È l’uomo invece, diventato colpevole, che si è separato interiormente da Dio. La colpa significa sempre una spaccatura. Se mi addosso una colpa, ho sempre l’impressione di non poter più comparire innanzi agli occhi degli altri e di dovermi nascondere – come Adamo ed Eva – davanti a Dio. Il messaggio dell’amore misericordioso di Dio, che colma questa spaccatura interiore, mi permette di presentare a Dio tutto quello che c’è dentro di me. La croce di Gesù non produce il perdono. Dio non perdona perché Gesù è morto in croce, ma perché egli è Dio. Tuttavia la croce è per noi la più efficace comunicazione del perdono. Quando vedo che Gesù in croce perdona ai suoi uccisori, posso confidare che in me non c’è nulla che non possa essere perdonato. Così la croce rafforza la mia fiducia nell’amore perdonante di Dio. Se medito la croce, so questo: sono accolto da Dio incondizionatamente. Anche la mia colpa non mi separa da lui.

La riconciliazione parte da Dio. Ma anch’io devo riconciliarmi con Dio. Spesso in me c’è una ribellione contro di lui. Non gli posso perdonare di avermi creato così come sono. Non gli posso perdonare che mi abbia destinato un genere di vita come quello che ho, di non avermi preservato dai miei errori e colpe. E così anch’io devo perdonare Dio che mi ha posto nella difficile situazione che mi tocca affrontare. In definitiva, la riconciliazione con Dio richiede che mi liberi dalle false immagini di Dio e di me stesso, per affidarmi al mistero inafferrabile di Dio. Allora potrò sperimentare la vera pace e riconciliazione con lui.

Ma la riconciliazione con Dio implica ancora un ulteriore aspetto. Quando faccio l’esperienza di Dio, sperimento anche la riconciliazione non solo con lui, ma anche con tutto ciò che esiste. Ho accompagnato per molti anni nella terapia una donna che cercava di superare le ferite ricevute dalla madre. Tutto lo sforzo di analizzarle non le era giovato a riconciliarsi veramente con la madre. Durante una celebrazione liturgica aveva sperimentato la vicinanza guaritrice di Dio. E ad un tratto si è sentita una sola cosa con se stessa e in accordo con tutta la sua vita. Non c’era più alcun odio verso la madre, ma solo amore. La vera esperienza di Dio è sempre anche esperienza di riconciliazione. Se sono una cosa sola con Dio, sono una sola cosa anche con tutto quello che è dentro di me, con gli altri, con la mia vita, con Dio. Sperimento una profonda pace interiore. Tuttavia non posso fissare questa esperienza di essere riconciliato. È sempre solo un istante quello in cui sono una sola cosa con Dio, ma è un istante che mi mostra che cos’è veramente riconciliazione: essere una sola cosa con tutto ciò che esiste; essere in accordo con il Dio inafferrabile e con quello che egli ha mi ha riservato.

Anselm Grün
scrittore, terapeuta, monaco dell’abbazia benedettina
di Münsterschwarzach (Germania)

domenica 26 maggio 2013

Spesso però è di grande aiuto chiarire la ferita con un altro.


Guarigione come riconciliazione

Anselm Grün

3. Riconciliazione con gli altri

Questi cinque passi della riconciliazione con l’altro si possono percorrere senza parlare con l’altro. Spesso però è di grande aiuto chiarire la ferita con un altro. È sempre necessaria tuttavia la prudenza nel giudicare se il dialogo con l’altro sia veramente opportuno. Se dico a dei genitori anziani che mi hanno ferito, li metterò in confusione e pretenderei troppo da loro. Il processo della riconciliazione avviene dentro di me. Spesso è bene parlarne con una terza persona, ad esempio nell’accompagnamento pastorale o in una analisi terapeutica. Se si tratta di ferite attuali, devo decidere se per me è meglio segnalare all’altro che mi ha ferito, oppure se posso perdonargli interiormente. Se dico all’altro che mi ha ferito, ciò non deve essere in alcun modo una rimostranza, bensì un’informazione, affinché sappia come il suo comportamento si riflette su di me.

Un’altra questione è se devo dire all’altro che lo si perdona. Il direttore di una fabbrica mi raccontava di avere un conflitto con la sua segretaria. Durante la discussione, la donna disse: «Le perdono in nome di Gesù». Per il direttore fu come uno schiaffo in faccia. Infatti in questa frase risuonava implicitamente: «Tu sei colpevole. Sei un tipo cattivo, ma io sono una persona spirituale e di animo generoso e ti perdono». Per l’altro, simili dichiarazioni di perdono sono un’accusa. Non producono alcuna riconciliazione, bensì rendono il disaccordo più profondo. Quando l’altro non accoglie il nostro perdono, abbiamo sempre la sensazione di essere persone migliori di lui. Nel monachesimo dei primi secoli cristiani, si racconta la storia di un monaco che andò dal suo vecchio padre spirituale lagnandosi che suo fratello non aveva accettato il suo perdono. Allora il vecchio abate gli rispose: «Guarda bene dal non metterti al di sopra di tuo fratello. Immagina di aver peccato contro di lui e va così da tuo fratello». Quando il monaco andò dal fratello con questo atteggiamento, fu il fratello che gli andò incontro e i due si abbracciarono. Certamente il fratello si era accorto del cambiamento avvenuto nel monaco. Il nostro perdono potrà giungere fino all’altro solo quando è inteso sinceramente e riusciamo a scorgere anche la nostra parte di colpa.

Anselm Grün
scrittore, terapeuta, monaco dell’abbazia benedettina
di Münsterschwarzach (Germania)