sabato 2 ottobre 2010

la concezione della festa come occasione di evasione e di consumo, contribuiscono a disgregare la famiglia e la comunità e a diffondere uno stile di vita individualistico


Benedetto XVI verrà a Milano il 2 e il 3 giugno 2012 per chiudere l’incontro mondiale delle famiglie, organizzato ogni tre anni dal Pontificio Consiglio della Famiglia presieduto dal cardinale Ennio Antonelli. Lo annunciato lui stesso in una lettera indirizzata al cardinale. Il tema è “La famiglia: il lavoro e la festa”. Scrive il Papa che oggi “purtroppo, l’organizzazione del lavoro, pensata e attuata in funzione della concorrenza di mercato e del massimo profitto, e la concezione della festa come occasione di evasione e di consumo, contribuiscono a disgregare la famiglia e la comunità e a diffondere uno stile di vita individualistico” Dunque bisogna ragionare su come “conciliare le esigenze e i tempi del lavoro con quelli della famiglia” per  “recuperare il senso vero della festa, specialmente della domenica”, che Benedetto XVI definisce  “giorno del Signore e giorno dell’uomo, giorno della famiglia, della comunità e della solidarietà”.

 
La lettera presentata nella Sala Stampa della Santa Sede, secondo l’analisi del cardinale Antonelli, mette sotto accusa la “logica del massimo profitto”, che tende a “gonfiare la produzione a danno delle relazioni umane e dei valori spirituali”: “Il giorno festivo è compromesso dal lavoro no-stop oppure diventa il fine settimana dedicato all’evasione mediante i cosiddetti riti di massa in discoteca, allo stadio, al mare o dedicato ai consumi con l’affollata frequentazione dei supermercati, le nuove cattedrali delle città-mercato”. Antonelli ha denunciato anche che il “single” è più “funzionale della famiglia alle esigenze dell’economia”. Invece la famiglia non riceve “adeguato sostegno giuridico, economico e politico”, anzi “subisce il peso di complesse dinamiche disgregatrici”, tra le quali vanno annoverate anche “l’organizzazione del lavoro e lo scadimento della festa solo a tempo libero”. Il cardinale rileva che nei rapporti di lavoro bisogna osservare una “flessibilità a misura di famiglia” che è cosa completamente diversa dalla “precarietà”. http://www.famigliacristiana.it/Chiesa/News/articolo/famiglia-attenti-a-troppo-lavoro-e-outlet.aspx Alberto Bobbio

venerdì 1 ottobre 2010

Bisogna ricominciare il viaggio...senza se...ma

"Se prima di ogni nostro atto ci mettessimo a prevedere tutte le conseguenze, a considerarle seriamente, anzitutto quelle immediate, poi le probabili, poi le possibili, poi le immaginabili, non arriveremmo neanche a muoverci dal punto in cui ci avrebbe fatto fermare il primo pensiero."
(Tratto da "Cecità" - Josè Saramago)

Bisogna vedere quel che non si è visto,
veder di nuovo quel che si è già visto,
vedere in primavera quel che si è visto in estate,
vedere di giorno quel che si è visto di notte,
con il sole dove la prima volta pioveva...l'ombra che non c'era.
Bisogna ritornare sui passi già dati...per tracciarvi a fianco nuovi cammini.
Bisogna ricominciare il viaggio.
Sempre.

Josè Saramago




C’è una qualità umana da riscoprire e riconquistare:
la compassione
Una virtù intensamente umana un modo di guardare gli altri
con occhi puliti liberi da pregiudizi e fanatismi.
Non è la pietà e neanche semplice tolleranza
è la terza via tra fuggire e combattere
Insegna a prendere le distanze dall’aspetto violento e disumanizzante
di tutte le competizioni che la vita ci propone e dall’egocentrismo apatico.
Essere compassionevoli non vuol dire abbandonare differenze e distinzioni.
E’ un modo nuovo non competitivo di stare insieme agli altri
con la capacità di convivere e prestare ascolto ai sentimenti altrui
immaginare la vulnerabilità dell’altra persona
e di riflesso la disponibilità a riconoscerla.
Smettiamo di vivere sulla difensiva
esponiamoci fiduciosi all’esperienza
e alla ricchezza che può arrivare dagli altri

giovedì 30 settembre 2010

La scelta del cristiano non praticante, senza Chiesa e sacramenti, e la prospettiva dell’uomo, che si ritiene riscattato dalla forma sacra delle manifestazioni religiose, non ha alcun fondamento nella struttura naturale dell’uomo e della società

http://www.zenit.org/article-23884?l=italian
LO SPIRITO E IL RITO: DUE ASPETTI INSCINDIBILI DELL’UNICO ATTO LITURGICO
ROMA, mercoledì, 29 settembre 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito una riflessione di don Enrico Finotti, parroco di S. Maria del Carmine a Rovereto (prov. Trento), contenuta nel libro “La centralità della liturgia nella storia della salvezza” (Edizioni Fede e Cultura, 2009)

Introducendo questo studio si è ben definito il significato del termine ‘liturgia’ a cui in tutta la trattazione si è inteso far riferimento. E in particolare si é affermato che per ‘liturgia’ si doveva intendere quell’ adorazione lieta e quell’ obbediente sottomissione che la creatura deve al Creatore, atteggiamento così profondo da essere previo ad ogni specificazione rituale storica propria delle varie espressioni religiose. Tuttavia questo sguardo che coglie la natura religiosa profonda dell’essere umano in quanto tale, non deve avvallare una impostazione spiritualistica del problema, divaricando dalla ritualità concreta che si esprime nelle forme storiche e che è connaturale ad ogni manifestazione dello spirito religioso dei popoli e delle culture. Tale prospettiva potrebbe sostenere e giustificare uno spiritualismo irreale, senza l’ancoraggio al rito che lo traduce e lo esprime in forma corporea. Per questa via si arriverebbe a giustificare una vita religiosa senza pratica rituale. Così il cristiano non praticante - ossia senza preghiera formale e assunzione fisica dei sacramenti - potrebbe ritenersi addirittura migliore del cristiano praticante, in quanto più ‘maturo’, più ‘libero’ e in fin dei conti più ‘autentico’. Sarebbe riproporre oggi l’errore della gnosi, con il suo dogma dello spiritualismo puro dei ‘mistici’ o degli ‘intellettuali’, relegando la pratica liturgico-sacramentale a fedeli ‘zotici’ e ai ‘non iniziati’. Una certa insistenza su un cristianesimo non rituale e l’allontanamento da una pastorale, che ha cura del rito e si qualifica nella liturgia, rivela una impostazione mentale di questo tipo. Anche un certo genere di linguaggio, alquanto diffuso, che fa ricorso a termini, quali ‘rubricismo’ ‘formalismo’ ‘trionfalismo’ e si oppongono ad altri quali ‘spontaneità’, ‘familiarità’, ‘amicizia’, ecc.; linguaggio che si traduce in scelte concrete, quali ‘l’allergia alla solennità’ contrapposta al ‘cameratismo’; il fascino della soggettività e il sospetto sull’oggettività; la ricerca di vocaboli correnti e il silenzio su termini teologici tradizionali nella catechesi e nell’omelia; creano disagio in ordine alla ‘forma’ liturgica e aprono il varco ad una religiosità vaporosa, svuotata di fatto del suo contenuto misterico. La fede così diventa la semplice manifestazione del sentimento religioso, che si esprime nel ventaglio fluttuante delle opinioni momentanee.
Occorre allora dichiarare con fermezza l’indissolubilità del rapporto spirito e rito. Non si dà alcuna esperienza vera di religione senza la sua veste rituale: non vi é adorazione senza prostrazione, né lode senza acclamazione, né contemplazione senza riverenza, né obbedienza senza osservanza, ecc. In altri termini non vi è liturgia, senza rito.
Il fatto lo si comprende bene alla luce della stessa struttura naturale dell’essere umano, che è spirito incarnato. L’anima e il corpo, sono distinguibili solo sul piano logico del pensiero, ma sono inestricabili nell’esistenza concreta della persona umana, che è in se stessa spirito nella carne, in tal modo che l’anima è la forma permanente del corpo. Nell’istante in cui l’uomo è generato è pure ‘animato’, non sussistendo nella realtà altro che l’uomo nella sua identità al contempo spirituale e corporea.
Così la Liturgia, come atto interiore e spirituale, esiste solo in forme rituali specifiche e definite, offerte dalla tradizione religiosa, anche se esposte continuamente ad uno sviluppo organico e coerente che tuttavia contiene sempre in sé l’interiore moto spirituale proprio dell’anima spirituale. Per questo non è possibile disgiungere nel culto dell’Antico Testamento lo ‘spirito’ dalla sua concreta legislazione e pratica rituale, pure comandata da Dio; né separare nel Nuovo Testamento il culto interiore suscitato dallo Spirito Santo dalla forma sacramentale che il Signore stesso ha stabilito e la Chiesa custodisce con tradizione ininterrotta. Quindi ‘forma’ e ‘materia’, ‘grazia’ e ‘sacramento’, spirito e corpo, pensiero e parola, adorazione e azione, sono realtà intrinsecamente connesse, interdipendenti, non dissociabili, mai estranee. Affermare il contrario sarebbe intellettualismo irreale, che non ha alcuna corrispondenza nella realtà fattuale. Anzi le categorie stesse del pensiero sono geneticamente costruite su immagini assunte dall’esperienza visibile e dalle forme corporee degli esseri che ci circondano, tanto è intrinseca la dimensione ‘carnale’ del nostro essere uomini.
Si comprende in tal modo che la costituzione liturgica nell’uomo non si riduce al moto invisibile e interiore dell’adorazione e dello stupore suscitati dal senso del divino, ma si esterna necessariamente in atteggiamenti corporei che tale interiore elevazione produce e interpreta. Da ciò è chiaro che la Liturgia deve essere necessariamente celebrata. Essa deve avere un posto fisico dentro il tempo e lo spazio del creato. Essa deve essere visibile nelle nostre città e deve prender carne in ogni aspetto della vita individuale e sociale degli uomini. Solo così sarà Liturgia, secondo l’etimologia stessa del termine greco: opera pubblica, nota, visibile, operativa e trasformante. La scelta del cristiano non praticante, senza Chiesa e sacramenti, e la prospettiva dell’uomo, che si ritiene riscattato dalla forma sacra delle manifestazioni religiose, non ha alcun fondamento nella struttura naturale dell’uomo e della società.
Si intende che un discorso parallelo deve essere fatto anche sulla necessità dello ‘spirito’ nel rito, per non arrivare al deprecato formalismo farisaico, tentazione mai sopita. E’ evidente che delegare alla materialità del rito un’adorazione assente dall’anima è assurdo quanto pretendere di adorare senza il supporto del rito, quale mezzo necessario, nell’economia sacramentale, per ricevere prima e per esprimere poi la compiutezza umana della Liturgia.

Scopo dell’arte non è spiegare il mondo, ma unificare la persona.

 Se fosse possibile spiegare perfettamente un romanzo, non sarebbe stato necessario scriverlo. La narrativa non insegna, mette in moto un processo. Non difende valori, li trova e li rinnova, permettendoci così di ricollocarci nel mondo in un modo nuovo. Scopo dell’arte non è spiegare il mondo, ma unificare la persona. Non andiamo a teatro per sentirci più colti (o almeno, non dovremmo), quanto piuttosto nella speranza di venire pervasi da un’intima sensazione di risanamento. La bellezza, secondo Ende, non è un optional. «Credo – scrive in una pagina toccante – che gli esseri umani non si mostrino mai così riconoscenti come quando viene offerto loro un piccolo frammento di bellezza […] Quando ne vengono privati, si aggrappano perfino ai surrogati, a dei sostituti, perfino al kitsch pur di placare la loro fame».
autore: Paolo Pegoraro

mercoledì 29 settembre 2010

predisposizione alla lentezza del pensiero recuperabile

Massimo Mantellini un paio di giorni fa ha scritto un elogio dei blog  che finisce così:

I siti web editoriali sono già da tempo in grado di rispondere a questa esigenza ed anche i blog personali, con tutti i loro limiti, hanno mantenuto intatta negli anni questa predisposizione alla lentezza del pensiero recuperabile. Scrivere un blog oggi significa, prima di tutto, partecipare ad una necessaria archiviazione dei pensieri, rubando tempo al veloce flusso di coscienza che è diventata oggi la regola della fruizione informativa ai tempi dei social network. Se questi spazi di raziocinio saranno destinati a mantenersi, nei prossimi anni, sarà certamente una buona notizia.

Spesso trivellano i sottosuoli della fede cristiana, per portare in superficie le facce della Terra più violentate e più oscurate

Famiglia cristiana e il miracolo delle lingue 
di Giancarlo Zizola 
Una critica delle nequizie del dispotismo politico, come quella di Famiglia Cristiana, sarebbe difficile da comprendere fuori di un approccio profetico, cioè sulla sola linea in cui la Chiesa può prendere seriamente le distanze dalle logiche del mondo in ragione della propria identità spirituale...


Si ha l'impressione che un riflesso autoritario produca in alcuni un tale timore della libertà dello Spirito che il solo sospetto che qualche fiammella scenda sulla testa di qualche cristiano basti a scatenare la voglia di chiamare d'urgenza i vigili del fuoco per stroncare la nuova Pentecoste e il miracolo delle lingue, cioè della libertà, da cui la Chiesa era sorta. Una visione gregaria della comunità ecclesiale ripugna anche a Ratzinger, di cui torna pertinente un testo del 1971 : «La vera obbedienza non è quella degli adulatori, chiamati falsi profeti dalla profezia genuina dell'Antico Testamento. Non è di quelli che evitano ogni ostacolo e urto, che pongono al di sopra di tutto la garanzia della propria comodità. Ciò che manca alla Chiesa di oggi (e di tutti i tempi) non sono i panegiristi dell'ordine costituito, ma gli uomini nei quali l'umiltà e l'ubbidienza non sono minori della passione per la verità, gli uomini che danno testimonianza nonostante ogni possibile travisamento ed attacco, gli uomini in una parola che amano la Chiesa più della comodità e della tranquillità del proprio destino». FC non è sola a vivere di questa passione. Essa è parte di una multiforme realtà, una vasta rete di riviste, settimanali diocesani, agenzie d'informazione, testate missionarie, siti e fogli di ordini e congregazioni religiose, di associazioni e movimenti, prestigiosi quindicinali e mensili culturali diffusi capillarmente e radicati nel territorio. Insieme informano, educano, narrano il mondo alla Chiesa e la Chiesa al mondo. Spesso trivellano i sottosuoli della fede cristiana, per portare in superficie le facce della Terra più violentate e più oscurate, ma anche quei pezzi di realtà ecclesiale meno visibili che vivono il disagio di una Chiesa (...). L'obiettivo è la promozione di una cultura dei valori senza i quali, diceva Wojtyla, «la democrazia si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia». Sulla stessa linea Benedetto XVI nella enciclica «Deus caritas est» impegnava la Chiesa a offrire attraverso la formazione etica un contributo specifico, «affinché leesigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili». (...) Colossale dunque l'abbaglio di quanti, di fronte all'indipendenza delle scelte politiche di FC, hanno tentato l'operazione di separarla dalla Chiesa gerarchica. Tanto più se si pondera il dato che il suo editore – la Congregazione dei Paolini – oltre all'autorità propria, ha la responsabilità di intrattenere con Papa Ratzinger vincoli così personali, avendone pubblicato libri, articoli e interviste rimaste nella storia, da rendere meritevoli di speciale attenzione le opzioni ecclesiali di questa multinazionale cattolica dei media. Piuttosto il fianco più inquietante del paradosso – e motivo di crescente preoccupazione per i capi della Chiesa –, è che il suo pensiero sociale, malgrado gli sforzi dei media cattolici, stenta a trasformarsi in parte costituiva e direttiva della cultura del mondo cattolico. Molti campanili suonano per la Lega, e magari vendono le testate cattoliche critiche alle porte delle chiese. Lavorata dal frastuono di fondo dei talk-show si espande anche tra i fedeli la stanchezza del pensare in grande e del pensare sociale e politico, un certo disagio col pluralismo, con la critica e con le mediazioni, la voglia di delegare la coscienza e gli affari del gregge ai capi, bravi a pensare per tutti. (...) Nella Bibbia si racconta l'alternanza del mormorio critico e della rassegnazione servile agli idoli nella storia del popolo ebraico. Nel mondo cattolico italiano coabitano allo stesso tempo il mormorare e lo scodinzolare. Ma sono universi che di fatto non comunicano, anzi si vanno polarizzando.
in “la Repubblica” del 2 settembre 2010

martedì 28 settembre 2010

Critica ingenerosa, rancorosa? ...per correggersi...il meeting delle omissioni


...Al Meeting di Rimini è stato invitato e ha parlato Marchionne, l'amministratore delegato della Fiat che ha illustrato il suo piano di rilancio della casa torinese nell'era della globalizzazione. Un piano che prevede delocalizzazioni, nuove impostazioni del lavoro in fabbrica, nuovi rapporti con i sindacati e nuovo sistema di orari e di ferie. Ma ha omesso di dire – e l'assemblea di farglielo notare – che tutto questo non deve avvenire attraverso la negazione dei diritti dei lavoratori e del loro contratto collettivo nazionale. Eppure è stato applaudito.
A Rimini è stato invitato e ha parlato pure il ministro degli Interni, Maroni, intrattenendo sui suoi piani per la sicurezza. Ma ha omesso di dire – e l'assemblea di ricordarglielo – dove finiscono gli immigrati respinti in Libia. E pure che in Italia ci sarà più durezza che in Francia nell'espulsione non solo dei Rom, ma anche dei comunitari che “non abbiano un lavoro sicuro e un'abitazione decente”. Eppure è stato applaudito.
È stata poi la volta del ministro Alfano, che ha parlato della riforma della giustizia. Ma ha omesso di dire – e l'assemblea di farglielo notare – che ha in mente di riproporre il lodo che porta il suo nome, introducendo l'immunità e la non perseguibilità per le più alte cariche dello stato. Eppure è stato applaudito.
Non è finita. Perché ha parlato pure il ministro Tremonti, illustrando come ha già fatto nel suo libro diventato un best-seller, gli orizzonti dell'economia, della finanza e della politica. In questo contesto ha pure parlato dell'esigenza di austerità. Ma ha omesso di dire - e l'assemblea di farglielo notare – che i costi non devono essere pagati solo dai ceti più deboli. Eppure è stato applaudito.
Appunto i peccati di omissione. E non per casuale dimenticanza, ma voluti, se, come si è potuto vedere alla televisione, a domande precise su tutti questi argomenti i volontari ciellini rifiutavano di rispondere. Omissioni che rivelano un mondo. E non da oggi perché già al tempo degli invitati socialisti di Craxi i responsabili del Meeting dicevano: “Noi non guardiamo in faccia nessuno, basta che appoggino le nostre opere”.
Di queste omissioni se ne sono accorti in parecchi. Tanto per citarne alcuni Alberto Faustini, ha parlato di “doppia morale” e di “sfacciata propensione a chiudere un occhio”. Gad Lerner ha parlato di “Chiesa privata” ed Eugenio Scalfari ha scritto che guardando al Meeting più che di comunità cristiana si deve parlare di “lobby”.
Generale il riconoscimento a Cl della capacità di mobilitare legioni di giovani. Ma è proprio ai giovani che si devono aprire gli occhi, non nascondendo loro le ambiguità e le responsabilità del potere. Per stare alla cronaca di questi giorni, nella critica al potere si è distinta Famiglia Cristiana, il settimanale della San Paolo, meritandosi la segnalazione come “isola della libertà e della schiettezza cristiana”. Per quanto riguarda la politica verso gli immigrati e i Rom è stata seguita da voci di vescovi e di cardinali e da quella dello stesso Papa Benedetto XVI.
Ebbene, il ciellino Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera, ha chiesto pubblicamente che venga vietata la vendita di Famiglia Cristiana alle porte delle chiese. Brutti tempi, quelli nei quali su argomenti che riguardano l'uomo e i più poveri tra gli uomini si preferisce omettere di parlare.
(dall'editoriale di VitaTrentina)

potere di orientare all’ottimismo autenticamente inteso


“Con te ha inizio una nuova generazione nella nostra famiglia. […] Tu sarai capofila di una nuova generazione e sarà l’incomparabile ricchezza della tua vita poter vivere una buona parte di questa insieme con la terza e quarta generazione che ti ha preceduto. Il tuo bisnonno potrà raccontarti ancora, avendoli incontrati personalmente, di uomini nati nel XVIII secolo, e un giorno, molto dopo l’anno 2000, tu rappresenterai per i tuoi discendenti il collegamento vivente con una tradizione orale di più di 250 anni – tutto ciò sub condizione Jacobea, cioè: ‘se Dio vuole, e ci dà vita’. Perciò la tua nascita costituisce per noi un’occasione particolare per riflettere sul mutamento dei tempi e per tentare di riconoscere il profilo del futuro”.
Comincia con queste parole una lunga lettera scritta da Dietrich Bonhoeffer a suo nipote in occasione del battesimo del piccolo. Era il maggio 1944, e Bonhoeffer si trovava, ormai da più di un anno, nel carcere di Berlino Tegel. Verrà giustiziato nel campo di sterminio di Flossenbürg un anno dopo, il 9 aprile 1945, per aver partecipato alla congiura che tentò di mettere fine al regime sanguinario di Hitler.
Alla base della riflessione di Bonhoeffer sta la consapevolezza che le relazioni che sorreggono la nostra vita superano e spezzano i confini del presente. In un tempo nel quale tutto sembra appiattirsi sull’oggi, concepire la propria vita come un “ponte” fra generazioni distanti fra loro oltre due secoli è una prospettiva per noi davvero rivoluzionaria. E lo è soprattutto perché recupera il valore della memoria orale, del racconto, della testimonianza affidata, accolta e poi ritrasmessa.
Ciò che colpisce non è solo il valore straordinario assegnato alla narrazione in un processo di trasmissione della conoscenza, ma anche la funzione di mantenimento dell’appartenenza che questa narrazione sostiene. Essere “collegamento vivente con una tradizione orale di più di 250 anni” significa accettare le proprie radici, comprenderle, capirne l’importanza per la propria formazione, e accettare così di averne cura. Significa, in altre parole, 
- sentirsi parte di una storia e non di un’altra, 
- comprendere meglio se stessi, il proprio posto nel mondo e il senso della propria relazione con l’altro 
- e, soprattutto, capire quali siano le radici della propria visione del mondo.
Devo dire che questo sentirsi parte di una storia che ci trascende è uno degli aspetti che mi colpiscono maggiormente nelle parole di Bonhoeffer, perché ho l’impressione che uno dei caratteri più vistosi delle relazioni umane in Occidente sia oggi quello di aver perso proprio questa consapevolezza.
Molto spesso, parlando del rapporto fra generazioni e in particolare del mondo giovanile, si mette in luce al contrario la difficoltà a concepire la propria vita nello scorrere del tempo, quasi che si possa vivere senza curarsi del proprio passato e del futuro che ci aspetta. Le ragioni di questa profonda incapacità di coltivare la memoria rimangono complesse.
Non so se una tale eclissi sia stata causata in Occidente dall’espansione delle tecnologie, che rendendo tutto disponibile in tempo reale hanno annichilito il senso del trascorrere del tempo. O se si tratti invece di una conseguenza della cultura del consumo, che considera ciò che sta nel passato come un “intoppo” da superare cancellandolo definitivamente dall’orizzonte. O, ancora, non so se la fine di questa potenza creatrice della memoria non sia la conseguenza di una trasformazione profonda della famiglia, che cessa di essere percepita come la ‘casa’ nella quale convivono generazioni diverse. Che sia l’una o l’altra di queste ragioni, poco importa: la sostanza è che in generale al passato si chiede di rimanere al proprio posto.
...
Il ponte fra le generazioni cui accenna Bonhoeffer non è però un ponte chiuso sul ‘privato’, legato unicamente alla propria vicenda personale. Di fatto esso mette in collegamento pagine di storia, orizzonti globali, e permette quindi non solo di comprendere se stessi, ma anche di comprendere il mondo degli altri e più ampiamente i processi storici.
... la consapevolezza di quanto si è ricevuto spinge a trasmettere ad altri ciò che si considera un’eredità che non deve andare perduta, ma anche perché la cura della memoria stimola capacità critiche e conduce così a immaginare il domani, senza rimanere in passiva attesa. Questa “operosità” che deriva dalla custodia della memoria è contrassegnata da un profondo ottimismo sulla possibilità di incidere nel corso degli eventi.
Annotava in proposito Bonhoeffer nel Natale 1942: «L’essenza dell’ottimismo non è guardare aldilà della situazione presente, ma è una forza vitale, la forza di sperare quando gli altri si rassegnano, la forza di tenere alta la testa quando sembra che tutto fallisca, la forza di sopportare gli insuccessi, una forza che non lascia mai il futuro agli avversari, ma lo rivendica per sé.
Esiste certamente anche un ottimismo stupido, vile, che deve essere bandito. Ma nessuno deve disprezzare l’ottimismo inteso come volontà di futuro, anche quando dovesse condurre cento volte all’errore; perché esso è la salute della vita, che non deve essere compromessa da chi è malato.
"Ci sono uomini che ritengono poco serio, e cristiani che ritengono poco pio, sperare in un futuro terreno migliore e prepararsi ad esso. Essi credono che il senso dei presenti accadimenti sia il caos, il disordine, la catastrofe, e si sottraggono, nella rassegnazione o in una pia fuga dal mondo, alla responsabilità per la continuazione della vita, per la ricostruzione, per le generazioni future. Può darsi che domani spunti l’alba dell’ultimo giorno: allora, non prima, noi interromperemo volentieri il lavoro per un futuro migliore".
È questa la prospettiva nella quale prende senso e valore la memoria: nel suo potere di orientare all’ottimismo autenticamente inteso. In tal senso, il pericolo di una generazione di padri e di figli senza memoria è quello di veder crescere generazioni senza passioni “costruttive”, contrassegnate più dalla malinconia e dalla noia che dal senso di responsabilità.
Per questa ragione si dovrebbe recuperare il valore esistenziale, e storico, dell’essere ponte fra le generazioni.

lunedì 27 settembre 2010

Il mio cammello non ha retto il peso di una piuma

IL VASO E LA GOCCIA
di Paulo Coelho

A volte ci irritiamo per certe reazioni esagerate del nostro prossimo. Noi facciamo un piccolo commento, una battuta – ed ecco che l’altra persona scoppia a piangere o si ribella.
Racconta una leggenda del deserto la storia di un uomo che doveva recarsi in un’altra oasi e cominciò a caricare il suo cammello. Caricò i tappeti, gli utensili della cucina, i bauli con la biancheria – e il cammello sopportava tutto. Proprio mentre stava per partire si ricordò di una bella piuma azzurra che il padre gli aveva regalato. Decise di prendere anche quella, e la caricò sopra il cammello. In quello stesso istante, l’animale crollò sotto il peso, e morì.
«Il mio cammello non ha retto il peso di una piuma», avrà pensato l’uomo. A volte pensiamo anche noi la stessa cosa del nostro prossimo – senza capire che la nostra battuta può essere stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso della sofferenza.

domenica 26 settembre 2010

un profeta è sempre imprevedibile e non si trova nella melassa del sentire comune

Ogni civiltà attraversa dei tempi oscuri, in cui pare che trionfino solo i malvagi, gli sfruttatori. Ma questo non è un motivo per dire che non esistono più profeti o testimoni. L’importante è cercarli con pazienza perché un profeta è sempre imprevedibile e non si trova nella melassa del sentire comune. Dobbiamo accettare di vivere in questa nebbia, ma sapendo che il Signore non ci abbandona e che ci sono tanti santi e testimoni anche nel nostro tempo.

È ciò che ci si attende dagli educatori: aiutare a scoprire l’energia dello Spirito che ancora oggi è presente e ci vuole portare con efficacia a contemplare tutte le cose da un punto di vista superiore. In tutto questo processo sono responsabili soprattutto gli educatori, la cui opera deve aiutare gli uomini a scoprire i giusti valori. Si contrasta così il malessere diffuso dai media che spesso esagerano o danno troppo rilievo a singole situazioni negative.

Fonte: Corriere della Sera
Carlo Maria Martini