sabato 5 aprile 2014

28° giornoChi ha pensieri e sentimenti puri non riesce a vedere la malizia intorno a sé, così come vede ombre anche nelle cose più innocenti colui che ha il cuore turbato dalle passioni disordinate.


 Nei due brani biblici odierni si coglie una evidente allusione alla Passione di Cristo, che si presenta sotto diversi aspetti. 
Innanzitutto il riferimento profetico: 
la figura di Geremia è una prefigurazione del Messia sofferente; 
egli incarna nell’ambito della profezia veterotestamentaria il tema sapienziale del giusto perseguitato. 
Tuttavia, il profeta Geremia presenta delle prospettive, a questo proposito, che saranno superate ampiamente dalla rivelazione neotestamentaria, come ad esempio l’attesa della vendetta e del castigo che possa abbattersi sui nemici;
 il profeta va incontro alla persecuzione che si scatena contro di lui affidando a Dio la propria causa (cfr. v. 20), ma anche con il bisogno molto umano di vedere la vendetta di Dio, e la sua giustizia, colpire i nemici. 
Al contrario, Cristo assume una posizione ben diversa: 
pur affidando a Dio la sua causa, non avrà alcuna sete di vendetta, non avrà bisogno di attendere la mano punitrice di Dio sui suoi nemici, ma sarà piuttosto Lui stesso la vittima espiatrice, accettando di subire personalmente la punizione degli empi, per liberare l’umanità dallo stato di colpevolezza davanti a Dio. 
Nello stesso tempo, il testo di Geremia allude ad una accettazione consapevole del dolore che inevitabilmente si connette al servizio di Dio: “Il Signore me lo ha manifestato e io l’ho saputo; allora mi ha aperto gli occhi sui loro intrighi” (v. 18). Ciò significa che il profeta va incontro alla persecuzione con una luce di discernimento, con uno svelamento del suo destino di sofferenza, non in forza di conoscenze umane, ma in forza del fatto che Dio gli concede di aprire gli occhi sulle trappole collocate sul suo cammino e dietro le svolte del suo ministero. 
Dall’altro lato, la sua condizione di agnello mansueto non gli permette di comprendere fino in fondo la malizia dei suoi avversari: “Ero come agnello mansueto che viene portato al macello” (v. 19). 
Chi ha pensieri e sentimenti puri non riesce a vedere la malizia intorno a sé, così come vede ombre anche nelle cose più innocenti colui che ha il cuore turbato dalle passioni disordinate. 
L’immagine dell’agnello è un altro punto di contatto ravvicinato col NT: 
è appunto la figura applicata in particolare dal vangelo di Giovanni alla Passione di Cristo.
Don Vincenzo Cuffaro

venerdì 4 aprile 2014

27° giorno l’atteggiamento degli empi sottolinea in diversi modi che il giusto viene perseguitato e ucciso per il fatto di essere giusto. Proprio la sua giustizia personale è l’unico motivo che lo rende insopportabile a coloro che vivono empiamente. Da qui la loro gratuita ostilità.


 Il libro della Sapienza ha anche un secondo livello di lettura: il primo livello è quello già chiarito della profezia allusiva circa il destino di Cristo, ossia un evento circoscritto nel tempo e nello spazio, mentre il secondo livello esprime una verità perenne che accompagna l’esperienza cristiana, quando essa diventa autentica: il mistero di una opposizione e di una ostilità, talvolta esplicite e talaltra implicite, che accompagnano i passi dei servi di Dio, insidiando il loro cammino. Il testo della Sapienza è senza dubbio un punto di arrivo nella riflessione sapienziale ebraica; i testi più antichi, come il libro dei Proverbi o alcune sezioni del libro di Giobbe, pensavano che all’uomo giusto non può accadere nulla di male, dal momento che la benedizione di Dio lo protegge come uno scudo. Questa concezione, però, viene smentita dalla riflessione del Qoelet, il quale afferma che l’uomo, anche se vive da giusto, non può scansare l’incontro spiacevole e misterioso con la sofferenza. Nel libro della Sapienza, composto circa duecento anni dopo (50 a. C.), questa prospettiva diventa ben più radicale: l’atteggiamento degli empi sottolinea in diversi modi che il giusto viene perseguitato e ucciso per il fatto di essere giusto. Proprio la sua giustizia personale è l’unico motivo che lo rende insopportabile a coloro che vivono empiamente. Da qui la loro gratuita ostilità.
C’è poi un punto del testo della Sapienza che rappresenta una novità assoluta nel quadro dell’AT, ed è la considerazione di un salario per la santità oltre questa vita. Infatti, nell’AT, in linea di massima, la speranza della divina ricompensa si racchiude nella felicità sperimentabile nel mondo. Il testo odierno si conclude significativamente in questi termini: “Gli empi non sperano salario per la santità né credono alla ricompensa delle anime pure” (v. 22); non ci può sfuggire il fatto che il libro della Sapienza tocchi qui un punto vicinissimo alla speranza cristiana: non tutte le pendenze e le ingiustizie di questo mondo vengono retribuite da Dio nell’arco della vita terrena. Né tutte le virtù, del resto, hanno la loro retribuzione in questa vita. Infatti, mentre gli empi non sperano salario per la santità, perché il loro orizzonte si chiude con questa vita, l’atteggiamento autenticamente cristiano è diverso, capace di sperare ogni bene oltre la soglia della morte.
Don Vincenzo Cuffaro

giovedì 3 aprile 2014

26° giorno Malgrado Dio non abbia bisogno di alcuno che lo aiuti a governare il mondo, tuttavia, il fatto di intercedere per l’umanità peccatrice, ha una grande forza, perché anche per la preghiera di un solo uomo Dio può fare grazia a tutti, come nel caso di Abramo


 I due brani biblici si collegano in ragione della figura di Mosè, che è il punto di contatto esplicito tra le due letture odierne. Questa figura assume due atteggiamenti diversi nelle due letture: nel testo del libro dell’Esodo, Mosè si presenta come un intercessore, chiedendo perdono a Dio dei peccati del suo popolo; ma nel testo giovanneo la figura di Mosè è ben diversa. Nelle parole di Cristo egli è infatti descritto non più come un intercessore, ma come un accusatore: “Non crediate che sia Io ad accusarvi davanti al Padre; c’è già chi vi accusa, Mosè, nel quale avete riposto la vostra speranza” (v. 45). Questa trasformazione dell’atteggiamento di Mosè è altamente significativa per indicare la differenza delle fasi della storia della salvezza e per indicare al tempo stesso la gravità del rifiuto di Cristo, che non ha paragoni nelle sue conseguenze: nei vangeli sinottici è detto infatti che il peccato contro lo Spirito non può essere perdonato né in questo mondo, né nell’altro (cfr. Mc 3,28-30). La figura di Mosè da intercessore che storna l’ira di Dio, nel contesto del cammino nel deserto, e in concomitanza con il peccato del vitello d’oro che stimola la giustizia di Dio a intervenire, si muta in quella di accusatore dopo la venuta di Cristo, avendo Israele rifiutato il suo Messia, ovvero l’ultima rivelazione dell’amore di Dio, realizzatasi sulla croce. Ormai non ci sono più giustificazioni dinanzi a Dio per avere rifiutato il Messia, dopo averlo conosciuto come l’unica possibilità per l’uomo di essere salvo. Infatti, nei vangeli sinottici, l’invio del Figlio, come in particolare si vede nella parabola dei vignaioli omicidi, rappresenta l’ultima possibilità: Dio, dopo avere inviato i suoi servi, per ultimo invia il suo Figlio. L’incontro con Lui rappresenta perciò l’ultima possibilità di salvezza. Nel testo del libro dell’Esodo, la figura di Mosè personifica anche un insegnamento fondamentale sulla preghiera di intercessione: la giustizia di Dio non può sorvolare il peccato dell’umanità, né può fingere di non udire il lamento degli oppressi sotto il giogo dei loro oppressori; tuttavia, Dio rimane in attesa che qualcuno gli fermi la mano e forzi la sua Misericordia a prevalere sulla sua Giustizia. Da questo punto di vista, Mosè si presenta davanti a Dio come un avvocato difensore dell’umanità peccatrice, in contrasto con l’inclinazione naturale del cuore umano, che invece tende molto più facilmente a prendere le difese della giustizia di Dio contro il peccato dell’umanità. Del resto, nel libro di Giobbe, i tre amici che vanno a trovarlo nel tempo della sua malattia, assumono esattamente questa posizione, che alla fine del libro sarà smentita da Dio e giudicata stolta (cfr Gb 42,7-8): essi si mettono davanti a Dio per accusare Giobbe e davanti a Giobbe per giustificare l’azione di Dio, che, se lo ha afflitto con la sofferenza, è perché certo ha i suoi buoni motivi per castigarlo. Malgrado Dio non abbia bisogno di alcuno che lo aiuti a governare il mondo, tuttavia, il fatto di intercedere per l’umanità peccatrice, ha una grande forza, perché anche per la preghiera di un solo uomo Dio può fare grazia a tutti, come nel caso di Abramo: in forza della sua intercessione, il Signore avrebbe fatto grazia ad una città intera.
Don Vincenzo Cuffaro

mercoledì 2 aprile 2014

25° giorno Occorre notare pure che la comunicazione della santità come ultimo atto della creazione dell’uomo, non può prescindere da un atto libero di accoglienza compiuto dall’uomo come destinatario del dono di Dio. Questa accoglienza libera, di cui parliamo, si realizza nell’atteggiamento della persona nei confronti della Parola: “In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia Parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio” (v. 24); la pienezza dell’essere della creatura umana, che consiste nella santità, coincide con la vita eterna, la quale non si comunica se non dove vi è una accoglienza libera ed esplicita del dono di grazia, un’accoglienza che si rivela a sua volta nella posizione che la persona assume nei confronti della Parola; l’espressione: “Chi ascolta”, allude ad una disposizione positiva, perché la Parola di Dio nella predicazione apostolica risuona per tutti, ma non da tutti viene ascoltata allo stesso modo: l’ascolto della Parola, la posizione di ubbidienza della fede verso la Parola di verità di Cristo è la manifestazione certa dell’apertura dell’uomo all’opera di santificazione compiuta dal Padre e dal Figlio nello Spirito.


 Occorre notare pure che la comunicazione della santità come ultimo atto della creazione dell’uomo, non può prescindere da un atto libero di accoglienza compiuto dall’uomo come destinatario del dono di Dio. Questa accoglienza libera, di cui parliamo, si realizza nell’atteggiamento della persona nei confronti della Parola: “In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia Parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio” (v. 24); la pienezza dell’essere della creatura umana, che consiste nella santità, coincide con la vita eterna, la quale non si comunica se non dove vi è una accoglienza libera ed esplicita del dono di grazia, un’accoglienza che si rivela a sua volta nella posizione che la persona assume nei confronti della Parola; l’espressione: “Chi ascolta”, allude ad una disposizione positiva, perché la Parola di Dio nella predicazione apostolica risuona per tutti, ma non da tutti viene ascoltata allo stesso modo: l’ascolto della Parola, la posizione di ubbidienza della fede verso la Parola di verità di Cristo è la manifestazione certa dell’apertura dell’uomo all’opera di santificazione compiuta dal Padre e dal Figlio nello Spirito.
Don Vincenzo Cuffaro

martedì 1 aprile 2014

24 giorno Il vuoto della solennità religiosa emerge per contrasto, a motivo della esclusione di quegli infelici dai festeggiamenti fatti nel Tempio per onorare di Dio; un onore di Dio, però, totalmente svuotato dell’amore verso il prossimo e della solidarietà umana. Il fatto che Cristo non vada al Tempio, mentre lì si inneggia a Dio, allude all’assenza di Dio in ogni culto inautentico.


 Gli infermi che giacciono sotto i portici della piscina sono indicati da tre categorie: ciechi, storpi e paralitici. Con queste tre immagini l’evangelista vuole indicare anche la reale condizione dell’uomo, nel momento in cui Cristo lo raggiunge: la cecità, la mancanza della libertà di movimento e la paralisi. Inoltre, vi è uno stridente contrasto tra la festa “dei Giudei” che si svolge nel Tempio, e la moltitudine di gente sofferente, abbandonata a se stessa. Il vuoto della solennità religiosa emerge per contrasto, a motivo della esclusione di quegli infelici dai festeggiamenti fatti nel Tempio per onorare di Dio; un onore di Dio, però, totalmente svuotato dell’amore verso il prossimo e della solidarietà umana. Il fatto che Cristo non vada al Tempio, mentre lì si inneggia a Dio, allude all’assenza di Dio in ogni culto inautentico. Cristo si allontana da tutte le forme di religiosità che inneggiano a Dio e calpestano la dignità della persona umana. Chi vorrà trovarlo, dovrà recarsi là dove giace l’umanità sofferente. Per questo, nella sua prima visita a Gerusalemme, Egli va al Tempio esprimendo una aperta condanna, ma nella sua seconda visita si reca da coloro che sono tenuti fuori dalla gioia di lodare Dio. Essi erano in attesa di un angelo che muovesse le acque della piscina, per conferire loro una virtù risanante.
Don Vincenzo Cuffaro

lunedì 31 marzo 2014

23 ° giorno Cristo condanna apertamente l’atteggiamento di chi lo cerca per ricevere un beneficio, senza curarsi di ridefinire la propria vita nell’ubbidienza della fede. Tuttavia il beneficio non è negato. Il valore altissimo della persona umana è sempre posto da Gesù come obiettivo prioritario del suo ministero messianico.


 Il funzionario si reca da Gesù non per esprimergli la propria adesione personale, ma perché ha un figlio malato e desidera che guarisca. Ha udito quello che Gesù aveva operato a Gerusalemme durante la festa di Pasqua e spera che faccia qualcosa anche per suo figlio. La risposta di Gesù è indicativa dell’animo con cui il funzionario regio gli si è avvicinato: “Se non vedete segni e prodigi voi non credete”. Cristo parla al plurale, perché il funzionario condivide lo stesso atteggiamento di tutta la classe dirigente giudaica, che chiederà ripetutamente a Gesù dei segni per poter credere. A livello personale, poi, c’è un’evidente contraddizione: quella classe dirigente che si manterrà ostile a Cristo fino all’ultimo, e gli negherà in Gerusalemme qualunque riconoscimento, ricorre però a Lui quando, trovandosi in grave necessità, non rimane alcuna speranza se non il suo intervento salvifico. Cristo condanna apertamente l’atteggiamento di chi lo cerca per ricevere un beneficio, senza curarsi di ridefinire la propria vita nell’ubbidienza della fede. Tuttavia il beneficio non è negato. Il valore altissimo della persona umana è sempre posto da Gesù come obiettivo prioritario del suo ministero messianico. E se da un lato Egli disapprova il funzionario che cerca i benefici di Cristo senza cercare Cristo, dall’altro lato, la sua compassione lo muove a guarire l’innocente colpito dalla malattia.
Don Vincenzo Cuffaro

domenica 30 marzo 2014

la conoscenza del male non giova a nessuno, può soltanto turbare, mentre la manifestazione della luce è una forza di edificazione della persona nella santità e nella perfezione cristiana


 Negli altri due testi della liturgia odierna l’incontro con il Signore produce la radicale divisione tra la luce e le tenebre in un’opera simile a quella compiuta dal Dio creatore all’origine (cfr. Gen 1,3-4). L’Apostolo Paolo precisa che non si tratta di una luce materiale, ma di una luce immateriale: 
il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità” (v. 9). Queste tre parole appartengono all’ordinamento morale; sono, infatti, le scelte di coscienza che portano l’uomo ad aderire ad uno di questi due schieramenti, senza la possibilità di una scelta intermedia. 
Non c’è una terza possibilità, come avviene nel mondo fisico in cui esiste una zona intermedia: tra la luce e la tenebra il mondo fisico conosce la penombra, dove non c’è abbastanza luce per vedere, ma neppure una tenebra fitta da impedire la visuale. Ma nello spirito, la luce e le tenebre sono divise da un netto confine che le distingue, le rende antitetiche e incompatibili reciprocamente. L’esortazione dell’Apostolo: “Comportatevi perciò come figli della luce” (v. 8), allude alla libera scelta di coscienza, non deterministicamente condizionata da alcuna forza esteriore all’uomo. Gesù stesso nel vangelo affermerà che non è ciò che entra nell’uomo a contaminarlo, ma ciò che esce (cfr. Mc 7,14-15), intendendo dire che l’uomo viene corrotto dalle decisioni della sua stessa coscienza. 
L’orientamento giusto che permette all’uomo di aderire alla dimensione della luce si esprime nella qualità delle relazioni impregnate di “bontà, giustizia e verità”. 
La bontà e la giustizia non coincidono, ma sono come due cerchi concentrici in cui la giustizia viene inclusa nella bontà. 
La bontà è una disposizione dell’uomo a superare i confini della giustizia; infatti, laddove la giustizia dà a ciascuno ciò che gli è dovuto, la bontà dà il dovuto e più del dovuto. Quindi, la bontà non è mai contro la giustizia. La bontà è il superamento dei confini della giustizia, dopo averli però raggiunti. E per questo motivo la giustizia sta dentro la bontà come un cerchio più piccolo dentro uno più grande. 
La verità è invece la scelta di non falsificare i dati della propria coscienza; essa non coincide con la sincerità, perché chi è sincero dice quello che pensa, ma le proprie convinzioni potrebbero essere false, anche se soggettivamente si è convinti della loro verità. L’adesione alla verità, invece, è una scelta di coscienza, laddove essere fedeli alla verità significa rinunciare a falsificare intenzionalmente i dati della realtà per scansare qualche inconveniente o per cadere in piedi nelle situazioni difficili. In definitiva, la verità impedisce di falsificare i dati in nostro possesso.
Entrando in merito a particolari aspetti del comportamento, l’Apostolo suggerisce ai cristiani di non perdere mai la consapevolezza della propria signorilità. 
Infatti, tale consapevolezza nasce da una vita vissuta nella luce della grazia: 
Fratelli, un tempo eravate tenebra, 
ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce” (v. 8). 
Occorre prendere le distanze dal passato, affrancarsi da tutto ciò che è antico e invecchiato; e in realtà, dinanzi alla novità della grazia, tutto è vecchio e antiquato. 
La grazia ci pone in una continua novità, proiettati verso il futuro di Dio. 
Non conta più ciò che eravamo: nel passato eravamo tenebra, adesso siamo luce nel Signore. 
Ma questo esige anche un’opzione particolare: Dio ci ha costituiti figli della luce, attendendosi che noi decidiamo di vivere di conseguenza.
L’Apostolo continua: 
Cercate di capire ciò che è gradito al Signore” (v. 10). 
Si comprende come la decisione di vivere nella luce comporti delle scelte di coscienza compiute sia in una linea orizzontale sia in una linea verticale. Nella linea orizzontale, chi sceglie la luce vive con fedeltà nella bontà, nella giustizia e nella verità, ma al tempo stesso viene integrata nella linea verticale dalla scelta della fedeltà alla volontà di Dio: 
Cercate di capire ciò che è gradito al Signore”, 
ovvero “Non partecipate alle opere delle tenebre” (v. 11). 
Le opere delle tenebre esercitano talvolta un sinistro fascino che potrebbe portare ad una partecipazione anche temporanea. Il cristiano consapevole che la luce e le tenebre non hanno nessun punto di contatto tra loro, sceglie di aderire radicalmente ai principi della luce e la luce rivela tutto ciò che è luce (cfr. v. 13). L’osservazione del v. 13 è un dato evangelico e, in generale, un insegnamento del NT, dove la rivelazione differisce dallo scandalo. Dicendo che tutto quello che si manifesta è luce, l’Apostolo intende affermare che le manifestazioni della luce sono le uniche capaci di edificare la persona nel bene; mentre la manifestazione del male non è mai una rivelazione, ma è uno scandalo, un inciampo. Vale a dire: la conoscenza del male non giova a nessuno, può soltanto turbare, mentre la manifestazione della luce è una forza di edificazione della persona nella santità e nella perfezione cristiana.
Il testo si conclude con una esortazione che, con tutta probabilità, la Chiesa primitiva utilizzava nella liturgia battesimale, considerando il battesimo come l’illuminazione del catecumeno: 
Svegliati, tu che dormi, 
risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà” (v. 14). 
È l’invito a passare dal regime delle tenebre al regime della luce in quei termini già precedentemente spiegati dall’Apostolo come una scelta di fedeltà nella linea orizzontale e in quella verticale: una fedeltà ai valori positivi che edificano l’uomo e che traducono l’ubbidienza alla volontà di Dio. Il v. 14 contiene due elementi di grande importanza che ritornano nel racconto della guarigione del cieco nato. Da un lato, la promessa della illuminazione che viene da Cristo, 
dall’altro la decisione personale di svegliarsi, di destarsi dai morti, 
perché l’illuminazione di Cristo è posta dall’Apostolo Paolo 
come una conseguenza della decisione personale di destarsi dai morti.
Don Vincenzo Cuffaro