sabato 19 aprile 2014

40° giorno La celebrazione della Pasqua, infatti, non è per coloro che considerano tutto scontato, tutto ovvio.


In questa giornata del grande silenzio riandiamo alla lettura del Venerdì Santo. 
 La prima lettura di questo Venerdì Santo è tratta dal capitolo 52 del profeta Isaia, che costituisce il quarto canto del servo di Yahweh. 
L’oracolo di Isaia si apre con la menzione di un duplice stupore: “Molti si stupirono di lui tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo, così si meraviglieranno di lui molte genti… perché vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito” (Is 52,14-15). 
In questi versetti sono presenti i due poli della Redenzione: 
l’umiliazione e la morte da un lato, la risurrezione e la glorificazione dall’altro. 
Mentre il primo polo della Redenzione stupisce per la sovrabbondanza del dolore, 
il secondo per la sovrabbondanza della vita, che supera di gran lunga la forza distruttiva della morte. 
Questo duplice stupore ha anche un altro significato che in qualche modo viene a completare l’insegnamento che ieri ci proveniva dal libro dell’Esodo. 
L’istituzione della Pasqua ebraica possiede alcuni elementi validi 
per la celebrazione della Pasqua cristiana, 
a condizione che vengano letti sul piano spirituale. 
Ad esempio, il mangiare coi fianchi cinti indica la prontezza della risposta che Dio si attende di trovare al suo passaggio. 
Così questo duplice stupore ci dice non solo che la Pasqua cristiana, cioè il mistero dell’Eucaristia, si deve celebrare con la prontezza necessaria per rispondere alla grazia, ma anche che questa celebrazione è per coloro che si sanno stupire di questi due momenti di umiliazione e di gloria, e non li trattano come semplici nozioni. 
Lo stupore è il contrario dell’indifferenza, è la capacità di lasciarsi toccare dalla Parola di Dio, di gustarla come un cibo sapienziale. 
La celebrazione della Pasqua, infatti, non è per coloro che considerano tutto scontato, tutto ovvio. 
La celebrazione della Pasqua è per quelli che si stupiscono del Cristo sfigurato e del Cristo trasfigurato, per quelli che guardano al mistero di Cristo con gli occhi imbambolati dei bambini.
Don Vincenzo Cuffaro

venerdì 18 aprile 2014

39° giorno Vi sono infatti delle sofferenze fisiche o morali che non vengono eliminate, perché dalla loro paziente sopportazione, e dalla loro offerta, dipende la crescita e la guarigione di tutta la Chiesa.


 La seconda lettura odierna presenta il Cristo in un rapporto paradossale con la sofferenza: “Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo dalla morte e fu esaudito per la sua pietà” (Eb 5,7). 
Da un lato si dice che Egli con grida e lacrime chiede di essere liberato, 
dall’altro l’autore della lettera dice che fu liberato. 
Ma come fu liberato se noi oggi celebriamo proprio il suo passaggio attraverso il dolore? 
La liberazione cristiana deve essere compresa nel modo giusto, altrimenti rischiamo di averne un concetto impoverito e, di conseguenza, rischiamo anche di farne un’esperienza impoverita. 
La rinascita e la liberazione cristiana si collocano a diversi livelli della nostra vita, perché a diversi livelli della nostra personalità abbiamo bisogno di essere guariti. 
La prima e più fondamentale guarigione è la caduta di tutte quelle forze che rallentano o che impediscono la nostra risposta a Dio. 
Negli altri settori il Signore si riserva di agire con noi in modo diverso. Infatti: mentre nel settore dello spirito, laddove c’è una catena che ci impedisce di rispondere alla grazia, la guarigione si realizza nella distruzione della catena che ci tiene legati, in altri settori il male non viene eliminato, perché è utile alla nostra santificazione. 
Vi sono infatti delle sofferenze fisiche o morali che non vengono eliminate, perché dalla loro paziente sopportazione, e dalla loro offerta, dipende la crescita e la guarigione di tutta la Chiesa. 
Per esse, talvolta, non è opportuno chiedere o pretendere una guarigione intesa come la rimozione del male: come Cristo è stato liberato dalla morte senza tuttavia evitarla, così ci sono determinate guarigioni che avvengono proprio attraverso il dolore. Certe sofferenze ci fanno maturare, altre frantumano inutili zavorre che rallentano in noi l’opera della grazia. Noi ci giochiamo tutto nel modo in cui affrontiamo la sofferenza. Nel momento in cui siamo capaci di attraversare la sofferenza fisica o morale, unendola alla celebrazione eucaristica, come un’offerta assorbita nella lode perenne che da Cristo sale al Padre, allora viviamo davvero un’esperienza di profonda guarigione. 
Tale esperienza non è soltanto per noi ma anche per la Chiesa. 
Infatti non è affatto vero che edificano la Chiesa soltanto quelli che svolgono in essa un servizio pratico e visibile; edificano la Chiesa anche gli ammalati delle nostre parrocchie, che offrono la loro vita, e nell’Eucaristia la trasformano in un sacrificio di lode; edificano la Chiesa tutti quegli uomini e quelle donne che crescono nella fede, nella speranza e nella carità. Cristo ci ha affidato il ministero di guarire la Chiesa dalle sue piaghe valorizzando il dono di grazia della Parola e dell’Eucaristia che Lui continuamente ci elargisce. Se noi cresciamo nella santità, anche se non abbiamo fatto nulla di visibile e di lodevole, possiamo e dobbiamo avere l’assoluta certezza che tutta la Chiesa cresce con noi. Naturalmente, con questo non si nega il valore del servizio concreto e della carità operosa.
Queste linee teologiche e sapienziali formano come una premessa e una chiave di lettura al racconto della Passione secondo Giovanni.
Don Vincenzo Cuffaro

giovedì 17 aprile 2014

38° giorno Si tratta dell’ultimo gesto del Maestro che viene consegnato alla comunità cristiana come norma perenne del suo agire.


 La meta del suo viaggio nell’oscurità del venerdì santo infatti 
non è la morte, 
bensì l’abbraccio del Padre: 
era venuto da Dio e a Dio ritornava”. 
Per Cristo l’abbandonarsi nella morte coincide col ritrovamento del Padre. 
Così, la morte di croce assume i tratti del mistero pasquale nel senso esodale del “passaggio”. 
La morte 
cessa allora di essere per l’uomo una meta terminale e 
si muta in uno spazio di attraversamento. 
Al di là di questo spazio vi è l’attesa del Padre.
Questi due versetti descrivono in modo particolareggiato un gesto di Gesù che deve restare impresso nella mente di ogni discepolo. 
L’accumulo dei verbi (otto verbi in due versetti) è il segnale chiaro di una narrazione che rallenta: si alzò… depose… prese un panno… se lo cinse… Si ha l’impressione di una scena che si muove al rallentatore, come se l’evangelista non volesse perdere alcuna sfumatura dei gesti di Gesù. 
Si tratta dell’ultimo gesto del Maestro che viene consegnato alla comunità cristiana come norma perenne del suo agire. L’amore deve tradursi in una azione concreta, e qui Cristo utilizza un linguaggio non verbale di grande forza: si spoglia del mantello e si cinge con un panno. L’espressione “depose le vesti” riportata dalla traduzione CEI andrebbe tradotta meglio con “depose il mantello”; il termine greco si riferisce agli indumenti che si aggiungono al vestito, ossia il mantello che si sovrappone. Questo particolare è significativo se si pensa che i verbi utilizzati dal testo collegano il mantello di Gesù con la natura umana assunta dal Verbo. Togliersi il mantello acquista perciò il senso di una anticipazione della sua morte. Il v. 4 è inequivocabilmente correlativo al v. 12, dove Gesù riprende il mantello, gesto col quale la natura umana, deposta nella morte, viene ripresa con la risurrezione. A sua volta, il duplice gesto di deporre il mantello e di riprenderlo è caratterizzato, in lingua greca, dagli stessi verbi usati da Gesù in 10,17: “Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo”. Amare secondo il modello della lavanda dei piedi presuppone insomma la disponibilità al dono della vita. Si potrebbe persino affermare che l’intensità dell’amore cristiano è proporzionale alla capacità personale di morire a se stessi. Ma il testo di 10,17 dice anche di più: chi ama così è amato da Dio. Cristo, però, ci tiene a sottolineare che la disponibilità a dare la vita, richiesta al discepolo di ogni epoca, non è mai un gesto ascetico fine a se stesso. Gesù non si limita a deporre il mantello, si cinge anche di un grembiule. Non si giustifica la deposizione del mantello se non in vista di un amore che si concretizza nel servizio; né sarebbe possibile servire con indosso il mantello che intralcia i propri movimenti.
Versata l’acqua nel catino, Gesù comincia a lavare i piedi ai suoi discepoli. Nelle consuetudini ebraiche, il gesto di lavare i piedi indicava l’accoglienza e l’ospitalità nei confronti di un amico o un pellegrino che ha camminato a lungo. Era un gesto che però non veniva compiuto dal padrone di casa, ma sempre da uno schiavo non ebreo, oppure da una donna. Presupponeva insomma che chi lavava i piedi si trovasse su un gradino più basso di colui al quale era destinato questo servizio. Inoltre, la lavanda dei piedi avveniva sempre prima del pasto, non durante, come in questo caso. Ciò significa che il gesto di Cristo prende solo lo spunto dalle consuetudini ebraiche, ma se ne distacca per esprimere un insegnamento nuovo. Il suo servizio non è un servizio qualunque: Egli accoglie nella casa del Padre l’uomo che vi arriva dopo un lungo pellegrinaggio alla ricerca di Dio, come un viandante affaticato. Nella casa del Padre suo, Cristo si cala nel ruolo di un servo, perché il viandante abbia un’accoglienza degna di un figlio. Si cinge perciò del grembiule. Ma prima ha dovuto togliersi il mantello, deponendo nella morte la natura umana assunta nella sua Incarnazione, in attesa di riprenderla dopo il compimento di tutto. Va notato inoltre che l’evangelista menziona solo la ripresa del mantello, ma non dice che Gesù si tolse il grembiule. Questa omissione non è senza significato: Gesù non depone il grembiule, perché esso rappresenta un suo attributo permanente anche dopo la risurrezione. Il suo servizio d’amore infatti non cesserà con la fine del suo ministero pubblico. Per questa ragione, il Risorto si manifesta ai suoi discepoli con i segni della Passione: le sue ferite rimangono aperte anche nel suo corpo glorificato, come segno di accoglienza incondizionata dell’uomo. In tal modo Cristo demolisce l’idea di Dio costruita dalla mentalità umana: Dio non si comporta come un sovrano celeste, ma come un instancabile servitore dell’uomo, proprio Lui che è “il Signore”. L’amore di Dio non ci viene dato come un’elemosina dall’alto, bensì come un servizio che ci innalza, in un incredibile capovolgimento delle parti, dove Lui diviene servo e noi principi. Ma proprio nella sua disposizione a farsi servo, Cristo rivela tutto lo splendore della sua divinità. Lungi dall’essere umiliante, il suo gesto di abbassarsi per servire è più regale di qualunque dominio. Cristo mostra coi fatti un criterio che la comunità cristiana non può sorvolare impunemente: non si può pensare di amare l’uomo ponendosi sopra di lui. Dio stesso ritiene di non poterlo fare, e nella sua scelta irreversibile di amare l’uomo si cala in modo permanente nel ruolo di un servitore. Una volta indossato il grembiule, Cristo non se lo toglie più.
Don Vincenzo Cuffaro

mercoledì 16 aprile 2014

37 ° giorno una tale immane sofferenza è accompagnata da una certezza incrollabile, dell’assistenza di Dio, ed è per questo che il servo di Yahweh non resta confuso, per quanto la persecuzione possa scatenarsi contro di Lui.


Cristo venne schernito in entrambi i casi in questi medesimi termini individuati dal terzo canto del servo di Yahweh come le sofferenze destinate al Messia. 
Anche qui, però, una tale immane sofferenza è accompagnata da una certezza incrollabile, dell’assistenza di Dio, ed è per questo che il servo di Yahweh non resta confuso, per quanto la persecuzione possa scatenarsi contro di Lui. 
Le espressioni finali della prima lettura esprimono molto bene questa sicurezza: “E’ vicino chi mi rende giustizia; chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?”. 
Non potrà mai esserci un processo che si chiuda 
con una sentenza di condanna per un innocente; 
anche se questo può accadere nel tribunale umano, 
Dio stesso, per iniziativa propria, 
riapre il processo, quando, dinanzi al suo Tribunale, 
tutti gli eventi della storia umana dovranno essere riverificati 
e giudicati una seconda 
e ultima volta. 
Quello che il testo sottolinea ancora, 
accanto alla sofferenza accompagnata dalla sicurezza dell’aiuto di Dio, 
è il fondamento della sofferenza, 
ossia l’atteggiamento del discepolato, 
per il quale la sofferenza non viene sciupata né vissuta in maniera bruta e svuotata di significati. 
Il discepolato trasforma la sofferenza dell’uomo in un sacrificio di lode gradito a Dio. 
Il testo di Isaia parla infatti della sofferenza del servo in seconda posizione rispetto al suo atteggiamento di ascolto 
e rispetto all’orecchio da iniziati che si apre al suono della Parola di Dio. 
Il servo dice di essersi lasciato aprire l’orecchio e di non essersi tirato indietro, 
resistendo alla grazia: 
non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro”. 
In lui non c’è dunque alcuna resistenza al progetto di Dio, 
e perciò il suo orecchio si apre all’ascolto della Parola e acquista, al tempo stesso, anche un linguaggio da iniziati. 
Non c’è dubbio che questa immagine voglia descrivere la disposizione del discepolato, 
che sta alla base del ministero della Parola; 
ma ciò significa pure che l’ascolto e la sottomissione alla Parola di Dio sono ciò che permette alla sofferenza di acquistare significati nuovi, così che non si soffra senza scopo. 
La sofferenza del servo non potrebbe avere questi significati divini, di cui parliamo, 
se l’esperienza del suo dolore non andasse a radicarsi 
nella disposizione dell’ascolto della Parola di Dio. 
La condizione di discepolato rende la sofferenza valida e fruttuosa agli occhi di Dio, 
nella dimensione soprannaturale, anche se, a livello umano, 
potrebbe non esserci un frutto visibile; ma quel frutto che rimane, la crescita della santità, comunque, 
è presente in ogni caso dinanzi a Dio, anche se fosse assente nell’esperienza terrena. 
Da qui la sicurezza del servo e il suo irriducibile ottimismo anche negli oltraggi e nella persecuzione: 
è vicino chi mi rende giustizia; 
chi oserà venire a contesa con me? 
Il Signore Dio mi assiste: 
chi mi dichiarerà colpevole?”.
Don Vincenzo Cuffaro

martedì 15 aprile 2014

36° giorno La chiamata di Dio, infatti, per ogni uomo, non si verifica in una determinata età della vita, bensì sin dal seno materno; vale a dire che ogni persona nasce sulla terra come un progetto di Dio.


Il secondo giorno della settimana santa prevede il secondo canto del servo di Yahweh, che si trova al cap. 49 del libro del profeta Isaia. Il vangelo di questa giornata è costituito dal racconto dell’ultima cena secondo Giovanni, durante la quale Cristo annunzia il tradimento di Giuda e il rinnegamento di Pietro.
A differenza del primo canto del servo di Yahweh, dove è Dio che introduce e presenta il servo, nel secondo canto è lo stesso servo del Signore che parla ai destinatari in prima persona, riferendosi alla propria vocazione e alla volontà di Dio che deve manifestarsi e realizzarsi nella sua vita. 
Ancora una volta il servo si presenta con una missione che valica i confini d’Israele. Rivolgendosi alle isole e alle nazioni lontane il servo di Yahweh estende a dismisura l’ambito del suo servizio ministeriale; non soltanto Israele ma il mondo nel suo insieme è oggetto della sua opera di rivelazione: “Ascoltatemi, o isole, udite attentamente, nazioni lontane” (Is 49,1). 
Qui il servo si presenta come un inviato che è stato preparato da Dio da lungo tempo, la cui vocazione entra nel mistero della divina predestinazione. La chiamata di Dio, infatti, per ogni uomo, non si verifica in una determinata età della vita, bensì sin dal seno materno; vale a dire che ogni persona nasce sulla terra come un progetto di Dio. Questo riferimento al seno materno, nell’orizzonte biblico, ha anche un altro significato: esso è funzionale alla presentazione del servo di Yahweh come profeta; anche la vocazione del profeta Geremia infatti è presentata nei medesimi termini di una chiamata che egli riceve da parte del Signore fin dal seno materno. 
Le immagini della spada affilata e della freccia nella faretra indicano l’efficacia della sua missione ma al tempo stesso alludono alla necessità di un combattimento che accompagna la realizzazione di ogni opera divina. 
Il servo di Yahweh ha una vocazione profetica e come profeta egli è l’uomo della Parola. La sua Parola, per il fatto di essere ispirata da Dio, possiede una particolare forza di penetrazione rappresentata appunto dal simbolo della spada affilata, simbolo che poi tornerà ancora una volta nell’Apocalisse a proposito della parola di Cristo che esce dalla sua bocca come una spada (cfr. Ap 1,16). Su questo servo si annuncia la manifestazione della gloria di Dio: “Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria” (v. 3). 
La stessa prospettiva verrà scelta dall’evangelista Giovanni come chiave di lettura del mistero di Cristo: la gloria di Dio si rivela nel Cristo crocifisso. Per l’evangelista Giovanni l’umanità di Gesù è il luogo della definitiva rivelazione della gloria di Dio. Il fatto che in questo punto il servo sia chiamato “Israele”, indica il secondo livello di lettura a cui già abbiamo fatto riferimento. 
La figura del servo è una figura individuale ma al tempo stesso è una categoria inclusiva del popolo cristiano.

lunedì 14 aprile 2014

35° giorno Il fatto di essere consacrati come dimora dello Spirito ci impedisce di conoscere altri sentimenti che non siano quelli ispirati all’ottimismo della fede


 Nel primo carme del servo di Yahweh notiamo che egli viene presentato in primo luogo nella sua relazione con Dio e soltanto successivamente vengono descritte quelle che sono le sue disposizioni personali nei confronti degli uomini. Si dice per prima cosa che è “servo” e che è sostenuto da Dio: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto in cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni” (Is 42,1); fin qui il profeta descrive il servo di Yahweh nelle sue relazioni con Dio. Subito dopo viene descritta la sua attitudine nei confronti degli uomini: “Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce” (v. 3). La scelta dell’autore di presentare il servo innanzitutto nel suo rapporto con Dio sta a significare che proprio tale rapporto di elezione e di pienezza dello Spirito produce uno stile di vita e un approccio con il mondo caratterizzato da certe scelte preferenziali che adesso metteremo in evidenza. Dobbiamo ancora osservare che il servo di Yahweh, descritto da Isaia nella sua relazione con Dio, richiama il racconto evangelico del battesimo, come pure quello della trasfigurazione. Nell’uno e nell’altro episodio, riportato dai sinottici, Cristo è presentato come l’eletto, come l’oggetto unico del compiacimento del Padre, sul quale si posa lo Spirito. Questi sono esattamente gli stessi elementi presentati nella descrizione del servo di Yahweh: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto in cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui” (v. 1).
Dopo questa presentazione del servo di Yahweh, nella sua attitudine e nella sua relazione con Dio, in seconda posizione, troviamo anche la descrizione dello stile e dell’approccio con la vita che distinguerà il suo modo di essere uomo. Il servo di Yahweh sarà capace di armonizzare due atteggiamenti difficilmente conciliabili senza un grande equilibrio umano: la mansuetudine e la fermezza: “Non griderà né alzerà il tono” (v. 2). Il Messia sceglie di essere creduto per un atto di accoglienza libera e non per una imposizione di se stesso, in forza del suo potere. Non possiamo qui sottovalutare il fatto che proprio questa è stata la scelta del Cristo storico: il suo rifiuto di usare il potere carismatico per impressionare le folle e per essere creduto si colloca in una perfetta linea di continuità rispetto al servo isaiano. Il servo di Yahweh, descritto da Isaia, annuncia già questa scelta prioritaria di uno stile che non si impone con la forza ma che aspetta di essere accettato liberamente e che attende di essere udito senza dover alzare la voce. La proposta della santità raggiunge l’uomo nei termini della libera accettazione e del confronto spontaneo. Dio cela all’uomo perfino tutte le meraviglie della santità, lasciandone trasparire soltanto poche, e lasciando intravedere soprattutto le sue asperità; anche questo è un suo divino stratagemma, perché la scelta della santità non sia fondata sulla ricerca della gloria che ne deriva, ma sull’amore di Lui, per il quale accettiamo di buon grado asperità e persecuzioni. Nello stesso tempo, questo stile di mansuetudine si coniuga con la scelta del nascondimento descritta dal suo evitare la ribalta: “Non farà udire in piazza la sua voce” (v. 2), ma agirà piuttosto in modo discreto e dolce, in modo da salvare e non rovinare del tutto ciò che sta per cadere: “Non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta” (v. 3).
Se da un lato il servo agisce con delicatezza e mansuetudine, dall’altro egli usa la fermezza nel proclamare il diritto: “Proclamerà il diritto con fermezza; non verrà meno e non si abbatterà” (v. 4). Se egli diventa irremovibile nel proclamare le esigenze della giustizia, ciò significa che quando si mostra mansueto è solo per scelta e non per debolezza. Di fatto il Messia, qualunque possa essere agli occhi di Isaia il suo destino terreno, ha depositato la sua causa presso Dio e la sua ultima parola non può che essere una parola definitiva di vittoria. Il Messia non si abbatterà, ma anche il popolo cristiano, che sa di essere proprietà di Dio, non si abbatte e non conosce il sentimento della paura o il pessimismo. I martiri ne hanno sempre dato una testimonianza di grande forza persuasiva. Il fatto di essere consacrati come dimora dello Spirito ci impedisce di conoscere altri sentimenti che non siano quelli ispirati all’ottimismo della fede. L’Apostolo Paolo esprimerà questo concetto in termini molto pregnanti: “Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?” (Rm 8,31). Sarà necessario dunque che il Messia come persona individuale e storica, e poi successivamente anche come popolo, viva la dimensione dell’equilibrio di tutte le virtù, perché da questo dipende la credibilità di quel diritto e di quella dottrina che viene annunciata alle nazioni da parte della comunità cristiana. La buona novella non è credibile tanto in se stessa; essa è credibile per la credibilità dei suoi testimoni.

domenica 13 aprile 2014

il servo di Dio è un discepolo, un uomo che ogni mattina si pone in ascolto come fanno gli iniziati


Il brano della prima lettura apre la liturgia odierna con una descrizione profetica del Messia. L’analogia più importante e significativa per la vita cristiana, 
tra il racconto di Isaia e la Passione di Cristo, 
è la disposizione del discepolato, 
che in entrambi i testi, fonda e conferisce valore alla sofferenza. 
Il testo di Isaia, infatti, pone l’accento sulla disposizione di discepolato che infonde significato e valore a qualunque forma di sofferenza che l’uomo possa sperimentare nell’ordine fisico o morale: “Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, 
perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. 
Ogni mattina fa attento il mio orecchio 
perché io ascolti come i discepoli” (vv. 4-5). 
Il riferimento all’apertura dell’orecchio, 
intesa come la capacità di ascoltare la parola di Dio tipica dei discepoli, viene premessa dall’autore alla descrizione dei dolori del servo di Yahweh. 
In primo luogo, il servo di Dio è un discepolo, un uomo che ogni mattina si pone in ascolto come fanno gli iniziati e, solo successivamente, in forza della sua capacità di ascolto che lo costituisce discepolo, egli può presentare: “il […] dorso ai flagellatori”, può consegnare “la faccia agli insulti e agli sputi” (v. 6), senza tuttavia rimanere confuso: “Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato […] sapendo di non restare confuso” (v. 7). 
Dietro questa espressione: “sapendo di non restare confuso”, 
l’autore intende indicare il significato positivo della sofferenza del servo di Yahweh, laddove nell’AT la percezione dell’essere confusi, 
la perdita dell’orientamento è la caratteristica degli empi, di coloro che impostano la vita a sistema chiuso vivendo in maniera difforme al vangelo. 
Nonostante il colpo del flagello, gli insulti e gli sputi, l’uomo che vive nella fedeltà quotidiana alla parola di Dio, rimane fermo, incrollabile contro qualunque urto. 
Il libro dell’Apocalisse esprimerà la stessa verità in altri termini: erroneamente crediamo di essere noi i custodi della parola di Dio, 
ma è la Parola a custodire noi (cfr. Ap 22,7; Sap 6,10), dal momento che Dio è presente in Essa in modo vivo ed attuale, così come lo è nell’Eucaristia. 
Quando si entra nel discepolato e si osserva la parola di Dio, Essa si pone come scudo contro ogni male che colpisce il discepolo, rendendolo capace di restare in piedi, quando tutto intorno a lui sta crollando. 
Il discepolato autentico, l’ascolto quotidiano e non sporadico, meno che mai un ascolto compiuto una volta per tutte, 
permette a qualunque esperienza di dolore di acquistare un risvolto di luce. 
Ogni sofferenza conseguente al discepolato diventa preziosa agli occhi di Dio e fiorisce in una nuova realtà, diventa la forza di fecondità che si estende misteriosamente, per la via della grazia, nell’intero corpo della Chiesa risanando, guarendo le sue ferite, sostenendola nelle sue lotte e nelle sue prove.
Don Vincenzo Cuffaro