giovedì 17 aprile 2014

38° giorno Si tratta dell’ultimo gesto del Maestro che viene consegnato alla comunità cristiana come norma perenne del suo agire.


 La meta del suo viaggio nell’oscurità del venerdì santo infatti 
non è la morte, 
bensì l’abbraccio del Padre: 
era venuto da Dio e a Dio ritornava”. 
Per Cristo l’abbandonarsi nella morte coincide col ritrovamento del Padre. 
Così, la morte di croce assume i tratti del mistero pasquale nel senso esodale del “passaggio”. 
La morte 
cessa allora di essere per l’uomo una meta terminale e 
si muta in uno spazio di attraversamento. 
Al di là di questo spazio vi è l’attesa del Padre.
Questi due versetti descrivono in modo particolareggiato un gesto di Gesù che deve restare impresso nella mente di ogni discepolo. 
L’accumulo dei verbi (otto verbi in due versetti) è il segnale chiaro di una narrazione che rallenta: si alzò… depose… prese un panno… se lo cinse… Si ha l’impressione di una scena che si muove al rallentatore, come se l’evangelista non volesse perdere alcuna sfumatura dei gesti di Gesù. 
Si tratta dell’ultimo gesto del Maestro che viene consegnato alla comunità cristiana come norma perenne del suo agire. L’amore deve tradursi in una azione concreta, e qui Cristo utilizza un linguaggio non verbale di grande forza: si spoglia del mantello e si cinge con un panno. L’espressione “depose le vesti” riportata dalla traduzione CEI andrebbe tradotta meglio con “depose il mantello”; il termine greco si riferisce agli indumenti che si aggiungono al vestito, ossia il mantello che si sovrappone. Questo particolare è significativo se si pensa che i verbi utilizzati dal testo collegano il mantello di Gesù con la natura umana assunta dal Verbo. Togliersi il mantello acquista perciò il senso di una anticipazione della sua morte. Il v. 4 è inequivocabilmente correlativo al v. 12, dove Gesù riprende il mantello, gesto col quale la natura umana, deposta nella morte, viene ripresa con la risurrezione. A sua volta, il duplice gesto di deporre il mantello e di riprenderlo è caratterizzato, in lingua greca, dagli stessi verbi usati da Gesù in 10,17: “Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo”. Amare secondo il modello della lavanda dei piedi presuppone insomma la disponibilità al dono della vita. Si potrebbe persino affermare che l’intensità dell’amore cristiano è proporzionale alla capacità personale di morire a se stessi. Ma il testo di 10,17 dice anche di più: chi ama così è amato da Dio. Cristo, però, ci tiene a sottolineare che la disponibilità a dare la vita, richiesta al discepolo di ogni epoca, non è mai un gesto ascetico fine a se stesso. Gesù non si limita a deporre il mantello, si cinge anche di un grembiule. Non si giustifica la deposizione del mantello se non in vista di un amore che si concretizza nel servizio; né sarebbe possibile servire con indosso il mantello che intralcia i propri movimenti.
Versata l’acqua nel catino, Gesù comincia a lavare i piedi ai suoi discepoli. Nelle consuetudini ebraiche, il gesto di lavare i piedi indicava l’accoglienza e l’ospitalità nei confronti di un amico o un pellegrino che ha camminato a lungo. Era un gesto che però non veniva compiuto dal padrone di casa, ma sempre da uno schiavo non ebreo, oppure da una donna. Presupponeva insomma che chi lavava i piedi si trovasse su un gradino più basso di colui al quale era destinato questo servizio. Inoltre, la lavanda dei piedi avveniva sempre prima del pasto, non durante, come in questo caso. Ciò significa che il gesto di Cristo prende solo lo spunto dalle consuetudini ebraiche, ma se ne distacca per esprimere un insegnamento nuovo. Il suo servizio non è un servizio qualunque: Egli accoglie nella casa del Padre l’uomo che vi arriva dopo un lungo pellegrinaggio alla ricerca di Dio, come un viandante affaticato. Nella casa del Padre suo, Cristo si cala nel ruolo di un servo, perché il viandante abbia un’accoglienza degna di un figlio. Si cinge perciò del grembiule. Ma prima ha dovuto togliersi il mantello, deponendo nella morte la natura umana assunta nella sua Incarnazione, in attesa di riprenderla dopo il compimento di tutto. Va notato inoltre che l’evangelista menziona solo la ripresa del mantello, ma non dice che Gesù si tolse il grembiule. Questa omissione non è senza significato: Gesù non depone il grembiule, perché esso rappresenta un suo attributo permanente anche dopo la risurrezione. Il suo servizio d’amore infatti non cesserà con la fine del suo ministero pubblico. Per questa ragione, il Risorto si manifesta ai suoi discepoli con i segni della Passione: le sue ferite rimangono aperte anche nel suo corpo glorificato, come segno di accoglienza incondizionata dell’uomo. In tal modo Cristo demolisce l’idea di Dio costruita dalla mentalità umana: Dio non si comporta come un sovrano celeste, ma come un instancabile servitore dell’uomo, proprio Lui che è “il Signore”. L’amore di Dio non ci viene dato come un’elemosina dall’alto, bensì come un servizio che ci innalza, in un incredibile capovolgimento delle parti, dove Lui diviene servo e noi principi. Ma proprio nella sua disposizione a farsi servo, Cristo rivela tutto lo splendore della sua divinità. Lungi dall’essere umiliante, il suo gesto di abbassarsi per servire è più regale di qualunque dominio. Cristo mostra coi fatti un criterio che la comunità cristiana non può sorvolare impunemente: non si può pensare di amare l’uomo ponendosi sopra di lui. Dio stesso ritiene di non poterlo fare, e nella sua scelta irreversibile di amare l’uomo si cala in modo permanente nel ruolo di un servitore. Una volta indossato il grembiule, Cristo non se lo toglie più.
Don Vincenzo Cuffaro

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