giovedì 14 dicembre 2017

Se non abbiamo il silenzio dentro noi stessi ... la maggior parte di noi sta correndo come se esistesse un luogo migliore in cui andare

E' strano come sia volato il tempo da un ultimo post.
Eppure l'atterraggio mi riconduce all'inizio, non solo di quest'anno, ma al principio di questo blog: "l'ascolto del silenzio"

“Trascorriamo parecchio tempo cercando
la felicità
quando il mondo intorno a noi trabocca di meraviglie.
Essere vivi e
camminare sulla terra
è un miracolo,
eppure la maggior parte di noi sta correndo
come se esistesse un luogo migliore in cui andare.
La bellezza
ci chiama ogni giorno, ogni ora, ma raramente
siamo nella posizione di ascoltare.
La condizione essenziale perché possiamo sentire il richiamo della bellezza e rispondervi
è il silenzio.
Se non abbiamo il silenzio dentro noi stessi –
se la nostra mente, il nostro corpo, sono colmi di rumore –
non possiamo udire quel richiamo”

 Passi di: Nhath Hanh Tich. “Il dono del silenzio (Italian Edition)”. iBooks.

mercoledì 13 dicembre 2017

SORRIDI, RESPIRA E VAI PIANO

Il valore della semplicità
SORRIDI, RESPIRA E VAI PIANO
Il maestro buddista Thich Nhat Hanh ci ricorda tre semplici passi per essere più consapevoli del presente.
Sorridi
Se sorridiamo la gente ci sorride… “ci vogliono settantadue muscoli per fare il broncio ma solo dodici per sorridere” dice Mordecai Richler. In effetti sorridere è semplice dona a noi tranquillità e infonde agli altri un sentimento positivo. Il sorriso è una forma di comunicazione… siamo come degli specchi… Il sorriso manifesta simpatia, ottimismo, benessere e apertura nei confronti di un’altra persona e nella cultura comune rappresenta l’espressione della felicità.
“Ci sono tre ragioni nella giornata per essere felici e sorridere. La prima ragione è quando mi sveglio, perché ho tutta una giornata davanti a me per fare bene tutto ciò che non ho potuto fare ieri, e quindi sono felice. La seconda ragione è a mezza giornata, perché, se non sono riuscito a fare molto, ho ancora davanti a me una mezza giornata per migliorare e me ne rallegro. La terza ragione è alla sera, perché la giornata è finita e se è andata bene sono felice, se invece è andata male sono felice che sia finita” (detto Cinese)
Respira
Deepak Chopra dice: “Ogni cambiamento dei nostri stati mentali è riflesso prima nel respiro e poi nel corpo. Ma tale fenomeno funziona anche all’inverso: cambiando gli schemi della respirazione viene modificato anche lo stato emotivo”. In sintesi il nostro modo di respirare influenza il nostro stato emotivo… Essere consapevoli del nostro respiro, osservarne il processo è senza dubbio un buon metodo per “rientrare” in noi stessi. Nel sanscrito il termine “prāṇa” significa letteralmente vita e in secondo luogo viene inteso come respiro e spirito. Una respirazione consapevole è importante dato che potremmo vivere per settimane senza mangiare e per alcuni giorni senza bere, ma è impossibile vivere senza respirare. Ricordiamoci che iniziamo la vita con una inspirazione e la finiamo con una espirazione concludendo il ciclo. Il respiro è vita.
Vai piano
Una citazione Zen dice: “Prima dell’illuminazione tagliavo legna e trasportavo acqua, durante l’illuminazione taglio legna e trasporto acqua, dopo l’illuminazione taglierò legna e trasporterò acqua”. Siamo in una società molto frettolosa, talvolta ci dimentichiamo di cambiare in nostro ritmo in modo più rilassato… Andare piano infonde calma e tranquillità, rallentare talvolta è necessario per riprendere energia e per aver più consapevolezza di ciò che stiamo facendo… Andare piano non significa oziare ma essere più attenti e vigili a ciò che ci circonda...
“Non importa cosa fai; ciò che conta è che puoi farlo con consapevolezza e dedizione. Solo così ogni tuo gesto diventerà un’azione spirituale” (CoDeZen)

lunedì 16 gennaio 2017

Un pericolo tutt’altro che superato.

“Vino nuovi in otri nuovi!”:
il pericolo da cui Gesù ci mette in guardia
è quello di ridurre la fede a un pezzo di panno nuovo su un vestito che rimane vecchio.

Un pericolo tutt’altro che superato.

Continuiamo
ad aggiungere cose nella vita personale e comunitaria,
continuiamo
a inventarne altre ma dentro un modello, un impianto e un programma per lo più vecchio.

Si può essere praticanti senza fede,
si può fare la carità senza amore,
si può essere gelosi dei dogmi senza assaporarne la verità.
Vuol dire che a dominare è la lettera (“la lettera uccide, lo Spirito da vita”),
la legge, che di volta in volta prende il volto
del formalismo, della ripetizione sterile, della disciplina tutta esteriore.
In questo modo si finisce per essere
persone che patiscono e fanno patire una noia mortale,
persone vecchie incapaci di aprirsi alle continue invenzioni di Dio nella storia degli uomini
e perciò l’obbligo è quello di deplorare ogni novità.
Il Signore non ci vuole collezionisti di otri vecchi
ma uomini e donne che continuamente si rivestono
di quell’abito nuovo che è Gesù Cristo!

Lunedì della II settimana del T.O. Antonio Savone

domenica 15 gennaio 2017

la tristezza, invisibile agli occhi che non siano bagnati di lacrime,

La tristezza è un’esperienza di vita che conosce fino in fondo
solo chi la viva negli abissi della propria anima,
 e che ci rende fragili e indifesi:
immergendoci nelle speranze recise, nelle nostre e in quelle degli altri,
e facendoci crudelmente soffrire.
Quando la tristezza,
invisibile agli occhi che non siano bagnati di lacrime,
vive nella nostra anima,
ogni nostra sicurezza viene meno,
 e inutilmente andiamo alla ricerca degli abituali punti di riferimento,
che si frantumano.
Come ogni forma di vita incrinata dalla fragilità,
la tristezza è facilmente ferita
dalla solitudine e dall’abbandono,
dalla noncuranza e dall’indifferenza,
e le ferite che ne sgorgano,
non sempre si cicatrizzano:
lasciando dietro di sé scie inestinguibili di un dolore
che si trasforma talora in sventura,
quella che è stata mirabilmente descritta da Simone Weil.
Eugenio Borgna

sabato 14 gennaio 2017

ricercare le orme della gioia, della sua stremata fragilità, nei volti e negli occhi, nel sorriso e negli sguardi di chiunque incontriamo in vita

Cosa ci dice, infine, la gioia in ordine al senso della vita: al destino che è in noi?
La gioia ci dice forse che,
nella condizione umana, è radicata la possibilità di ritrovare un senso nella vita
anche quando essa sia oscurata dalle spine inesorabili
dell’indifferenza e della noncuranza,
dell’egoismo e dell’aggressività,
e anche della violenza e della morte.
La gioia è un destino insondabile che consente di intravedere la luce
anche nelle tenebre dei campi di concentramento,
quando la grazia, il mistero della grazia, sia nella nostra anima.
Ma a noi, a ciascuno di noi, è demandato il compito di ricercare le orme della gioia,
della sua stremata fragilità,
nei volti e negli occhi,
nel sorriso e negli sguardi di chiunque incontriamo in vita.
Non la inaridiamo con la nostra gelida disattenzione.
Eugenio Borgna

venerdì 13 gennaio 2017

un’arcana nostalgia di infinito

Ma la gioia testimonia di un’arcana nostalgia di infinito,
di un infinito che non si spegne nemmeno nelle condizioni di straziato dolore e di quotidiana attesa della morte;
come sono state quelle vissute da Etty Hillesum a Westerbork, il campo di concentramento olandese nel quale è stata confinata dal 1941 al 1943:
nell’attesa, come è avvenuto, di essere mandata
a morire ad Auschwitz con i genitori e con Mischa, uno dei suoi due fratelli
(ma anche Jaap, sopravvissuto ad Auschwitz, moriva mentre tornava in Olanda).
La gioia, una gioia di inesprimibile tenerezza,
rinasce in Etty Hillesum con parole che non si possono citare se non con il cuore in gola:
«Ma cosa credete, che non veda il filo spinato, non veda il dominio della morte, sí, ma vedo anche uno spicchio di cielo, e questo spicchio di cielo ce l’ho nel cuore, e in questo spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza. Non ci credete? Invece è cosí».
Eugenio Borgna

giovedì 12 gennaio 2017

un’emozione che nasce in noi solo quando il nostro cuore si sottrae agli avvenimenti di ogni giorno

La gioia come immagine del cuore,
e il cuore come immagine della gioia:
l’una e l’altra cosí fragili.
Certo, se volessi aggiungere qualcosa alle straordinarie considerazioni rilkiane,
potrei soltanto dire che

la gioia è un’emozione che nasce in noi solo quando il nostro cuore si sottrae agli avvenimenti di ogni giorno, e recupera le sorgenti intatte del nostro aprirsi agli altri:
nella dedizione e nella solidarietà.

La gioia è un’emozione luminosa
che è causata da qualcosa non di esteriore ma di interiore:
è quasi una fontana che sgorga dagli abissi della nostra interiorità.

La gioia è un’emozione friabile e fragilissima, sí,
come la stella del mattino
che si intravede un attimo, e poi scompare fra la notte e l’alba:
come la rosa che,
in una bellissima poesia di Malherbe,
fiorisce e poi muore nello spazio di un mattino.

La gioia è un’emozione di indescrivibile leggerezza
che ci fa riflettere fino in fondo sul mistero della condizione umana:
sulla sua estrema fragilità che resiste nondimeno alle situazioni dolorose della vita:
quando nasca, e cosí è sempre, dal cuore.

La gioia è un’emozione impalpabile e fuggitiva,
e non è facile raggiungerla e trattenerla.
Sguscia fra le dita, e tuttavia come coda di cometa continua a vivere in noi:
nella nostra memoria, e nel nostro cuore.
Eugenio Borgna

mercoledì 11 gennaio 2017

Le emozioni fragili, come le virtú deboli, hanno in sé le stimmate lucenti e dolorose dell’umanità ferita


Ci sono emozioni fragili, certo, ma ci sono anche virtú fragili, virtú deboli, 
come la gentilezza e la mansuetudine, 
l’innocenza e la modestia, 
la mitezza e la tenerezza; 
e come non richiamarmi, a questo riguardo, alle considerazioni di Norberto Bobbio 
in un suo bellissimo libro dedicato all’elogio della mitezza? 
«Chiamo “deboli” queste virtú 
non perché le consideri inferiori o meno utili e nobili, e quindi meno apprezzabili, 
ma perché caratterizzano quell’altra parte della società 
dove stanno 
gli umiliati e gli offesi, i poveri, i sudditi che non saranno mai sovrani, 
coloro che muoiono senza lasciare altro segno del loro passaggio su questa terra che una croce con nome e data in un cimitero, coloro di cui gli storici non si occupano perché non fanno storia, 
sono una storia diversa, con la s minuscola, 
la storia sommersa o meglio ancora la non-storia 
(ma da qualche anno si comincia a parlare di una microstoria contrapposta alla macrostoria, e chi sa che nella microstoria ci sia un posto anche per loro)».

Le emozioni fragili, come le virtú deboli, 
hanno in sé le stimmate lucenti e dolorose dell’umanità ferita, 
ed è questa a renderle cosí umane e cosí arcane.
Eugenio Borgna

martedì 10 gennaio 2017

sono fragili alcune delle emozioni piú significative della vita.

Le emozioni fragili.
Ci sono emozioni forti ed emozioni deboli, virtú forti e virtú deboli, e sono fragili alcune delle emozioni piú significative della vita.

Quali emozioni si possono considerare fragili, e in cosa consiste la loro fragilità?
Sono fragili
la tristezza e la timidezza,
la speranza e l’inquietudine,
la gioia e il dolore dell’anima,
l’amicizia e le lacrime,
che sono intessute di fragilità e che,
se non fossero fragili,
perderebbero immediatamente
la loro significazione umana e il loro fulgore emozionale.
Le emozioni fragili si scheggiano e si frantumano facilmente:
non resistono all’avanzata dei ghiacciai
della noncuranza e dell’indifferenza,
delle tecnologie trionfanti e degli idoli consumistici.
Ma cosa diverrebbe la speranza, se non fosse nutrita di fragilità e di fluida friabilità?
Non sarebbe se non una delle tante problematiche certezze che,
nella loro impenetrabilità al dubbio e all’incertezza,
svuotano di senso la vita.
Eugenio Bogna

lunedì 9 gennaio 2017

ci consente di curarle e di guarirle senza lasciare cicatrici

Le parole nascono dal silenzio e muoiono nel silenzio,
e tuttavia le parole non sono mai fragili come lo è il silenzio che non parla se non con il linguaggio dei volti, degli sguardi e delle lacrime,
o del sorriso, ed è un linguaggio che si coglie nei suoi significati profondi solo quando sia accompagnato dalla luce arcana dell’interiorità.
Solo un dialogo senza fine con il silenzio, con la fragile evanescenza del silenzio,
ci consente di cogliere le ferite dello spirito inesprimibili e invisibili
agli occhi della ragione calcolante,
e ci consente di curarle e di guarirle senza lasciare cicatrici.
Quando ci incontriamo con un malato in ospedale,
alta è la tentazione di parlare, di riempire con parole le pause del silenzio,
senza rendersi conto che
talora al silenzio di chi sta male
non può accompagnarsi
se non talora il silenzio di chi sta bene.
Non dovremmo mai lasciarci trascinare dall’impazienza e dalla fretta di aggredire il silenzio
senza cercare di intuirne le motivazioni.
Costa fatica attendere che il silenzio si esaurisca;
ma nella solitudine in cui noi ci troviamo dinanzi alla indifesa fragilità di un paziente murato nel suo silenzio, è necessario attendere, tacere, non fare nulla e scambiarsi un sorriso.
Eugenio Borgna

domenica 8 gennaio 2017

La parola che tace è talora piú importante della parola che parla

Come non essere tentati di guardare al silenzio come a un modo di essere inutile e negativo,
e alla parola invece come a un modo di essere sfolgorante e positivo?
Ma dovremmo sapere che nella vita non tutto è dicibile, e non tutto è esprimibile; e non dovremmo illuderci di potere spiegare i pensieri che abbiamo, e le emozioni che proviamo, con le sole parole chiare e distinte.
La parola che tace è talora piú importante della parola che parla.
Sono cose che dice Etty Hillesum nel suo bellissimo diario scritto nel campo di concentramento olandese di Westerbork:
«In me c’è un silenzio sempre piú profondo. Lo lambiscono tante parole che stancano perché non riescono ad esprimere nulla»;
e quante sono le parole inutili che diciamo ogni giorno senza che il silenzio abbia a recuperarle nella loro sincerità e nella loro profondità:
«Bisogna sempre piú risparmiare le parole inutili per poter trovare quelle poche parole che ci sono necessarie, per riconoscerci e per riconoscere cosa c’è nell’altro. Questa nuova forma di espressione deve maturare nel silenzio».
Eugenio Borgna

sabato 7 gennaio 2017

"Pocjis e che si tocjin", poche parole, ma semplici e concrete.

In questi giorni incontro commenti/lectio che formano un'eco profonda nella mia anima. Ho incontrato questa risposta  di padre Ermes che, parlando del modo con cui avrebbe affrontato la predicazione degli esercizi, definisce le caratteristiche che trovo nelle mie frequentazioni quotidiane della Parola. E poi, quanto vorrei che anche le mie parole fossero sempre guidate dalle qualità espresse nell'impegno che padre Ermes si è dato.

D.- Il Papa tiene molto alle omelie dei sacerdoti, dice che devono essere chiare, semplici, brevi ... e che la gente le capisca…

R. di Ermes Ronchi–
Questo coincide con il ricordo che io ho della mia prima Messa, quando io chiesi al mio papà:
“Come devo predicare alla gente del mio paese?”.
E lui mi rispose in lingua friulana: "Pocjis e che si tocjin", poche parole, ma semplici e concrete.
E allora io ho capito da lì
che la Parola deve essere incarnata,
che si possa toccare,
che abbia toccato,
che abbia inciso, graffiato.

Mi sono dato questo impegno:

non dire mai una parola che prima non abbia fatto soffrire o gioire me,
altrimenti non è incarnata e
non raggiunge nessuno.

E poi credo, come secondo criterio fondamentale,
la semplicità:
non elucubrare grandi pensieri teorici ma far capire che siamo immersi in un mare d’amore e non ce ne rendiamo conto.

La terza cosa è la bellezza.
La bellezza per me è un nome di Dio.

E la quarta cosa è la positività: sempre positivi, sempre creativi di speranza, il Vangelo è positivo, basta solo leggere la sua etimologia.

venerdì 6 gennaio 2017

Dopo aver incrociato le Scritture ecco che i Magi comprendono in altro modo la vita

Alessandro Dehò ·
Occhi dei Magi
(Matteo 2,1-12)
Epifania del Signore

Poi è cammino che si compie,
i Magi riprendono il cammino e
“la stella che avevano visto spuntare li precedeva”.
Mi piace davvero molto questo passaggio.
Dopo aver incrociato le Scritture ecco che i Magi comprendono in altro modo la vita
che hanno vissuto fino a quel momento.
La stella che avevano visto spuntare cioè tutta quella vita vissuta con passione
adesso è riletta come qualcosa che ha “preceduto”, come se avessero intuito,
adesso che hanno letto la Scrittura,
il Senso del loro vivere.
Succede.
Il confronto con la Scrittura non toglie il rischio e la paura di sbagliare,
non dice in anticipo cosa fare o cosa scegliere ma esplicita il Senso di una vita vissuta in pienezza.
E il Senso è incontrare Dio dentro la storia.
Ma questo avviene solo a prezzo di un Esodo personale, di uno smarrimento e di un ritrovamento continui.
La solennità dell’Epifania possa farci sentire addosso gli occhi dei Magi,
occhi di chi comprende che il sapere ha bisogno di polvere,
che la Parola ha bisogno di stelle,
che la fede è possibile solo a un cuore in cammino.

giovedì 5 gennaio 2017

non basta comprendere le Scritture, non basta interpretarle, occorre tirarne le conseguenze.

Alessandro Dehò ·
Occhi dei Magi
(Matteo 2,1-12)
Epifania del Signore

Accanto a Erode ecco i sapienti.
Anche su di loro lo stesso avvertimento:
non basta comprendere le Scritture,
non basta interpretarle,
occorre tirarne le conseguenze.
Occorre lasciarsi cambiare profondamente,
iniziare cammini nuovi,
 cedere alla tentazione di convertire il cuore.
Più leggo queste prime pagine evangeliche più mi sembrano le istruzioni d’uso per non sprecare la lettura del Vangelo,
più che una cronaca sono una specie di preparazione all’incontro.
Intanto i magi ci guardano,
loro che non hanno nemmeno capito tutto della Scrittura,
loro che non hanno catechismi e iniziazioni alla fede,
loro che non hanno tradizioni da difendere
eccoli disarmanti e ingombranti a chiedere conto di una stella.
Perché è una stella che li ha portati lì.
Poi, certo, serve la Scrittura e infatti la stella si spegne fino a quando la Scrittura non illumina il cammino però.
Però fino a Gerusalemme sono arrivati seguendo una stella.
E non è sicuramente un colpo di teatro,
non è il cedimento dell’evangelista a un commovente particolare cosmico è solo che non poteva che essere così.
Perché la fede parla nella vita e se questi erano osservatori del cielo ecco
che la fede li interpella
nel loro mestiere,
nella loro maniera di essere uomini.
Con i pescatori Gesù si affiderà alla grammatica di reti gonfiate da una pesca miracolosa,
con degli astronomi: stelle.
E fanno paura perché sono navi che hanno trovato il coraggio di salpare,
sono vite in grado di rimettersi in discussione.
Matteo regalandoci questa pagina mostra le condizioni necessarie
per intraprendere il viaggio della verità:
vita e Parola.
Insieme. Solo Parola genera sapienti immobili, solo Stella genera uomini condannati al finito.
Ma se apri la vita alla Scrittura e
ti abbandoni a una danza nel deserto
allora ecco gli occhi dei Magi.

mercoledì 4 gennaio 2017

se non accetti che la tua vita venga toccata e turbata e sconvolta dal vangelo

Alessandro Dehò ·
Occhi dei Magi
(Matteo 2,1-12)
Epifania del Signore

“Dove è?”, chiedono.
Erode ha paura perché è troppo intelligente,
capisce che quella è l’unica domanda a cui non vuole dare risposta.
Erode lo sa che le Scritture dicono il vero,
e ne ha conferma dopo aver interrogato i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo.
Sa benissimo tutto, solo spera fino alla fine che la Scrittura non diventi realtà.
Erode è la persona che conosce la Scrittura,
che ne comprende le pieghe più sottili
ma che spera con tutto il cuore
che la Scrittura rimanga altro dalla vita.
Erode non è molto lontano dal nostro modo di credere.
Sappiamo cosa dice la Bibbia,
sappiamo che il Vangelo è parola vera ma speriamo sempre che la realtà non si lasci travolgere da tanta divina follia.
L’evangelista, raccogliendo e ridisegnando racconti anticotestamentari, paragonerà Erode al Faraone, stessa strage di bambini innocenti, perché?
Per il patetico tragico tentativo di preservare la vita dalla Scrittura,
per cercare di impedire alla storia di lasciarsi fecondare dalla profezia.
I magi
che ti guardano negli occhi e
che dicono di una scelta, di un viaggio, di un cambiamento radicale fanno paura
non per quello che dicono ma per quello che sono:
loro sono vite travolte dalla profezia.
Loro sono esempi concreti della Parola che si fa carne.
Sono incarnazione di un sogno, sono la fede che smette di essere astratta, sono la vita che cambia orizzonte, sono la prova che la Scrittura non è solo vera ma può diventare reale.
E il re, paradossalmente, non comprende il reale.
E resiste.
Ecco perché non si sposta, ecco perché non va di persona a controllare,
è chiaro che l’evangelista sta raccontando altro rispetto a una storia di per sé non troppo credibile: se ti dicono dove è nato il tuo avversario politico perché non mandare ad uccidere direttamente lui invece di ammazzare tutti i primogeniti?
No, non è racconto cronachistico questa è la narrazione di una verità più nascosta e non meno vera: è la storia di una tentazione, è il racconto di come si possa rendere vana la lettura del Vangelo che Matteo ha da poco iniziato.
Se sei come Erode puoi anche leggere tutto il Vangelo,
puoi farti aiutare dai capi dei sacerdoti e dagli scribi a decifrarlo
ma se non accetti
che la tua vita venga toccata e turbata e sconvolta dal vangelo
a nulla vale la lettura.
Messaggio chiaro, per gli aspiranti lettori di tutti i tempi.

martedì 3 gennaio 2017

a te, tutta questa vita inizia a far male.

Alessandro Dehò ·
Occhi dei Magi
(Matteo 2,1-12)
Epifania del Signore

Non lo capisci subito ma l’inquietudine che ti muovono dentro è inequivocabile.
Ti guardano con quegli occhi innocenti e sicuri,
occhi che hanno visto troppo mondo per farsi intimorire da un re.
Hanno addosso il profumo delle notti passate ad osservare nuovi cieli e tentare nuove strade e ipotizzare nuove rotte,
hanno addosso la timidezza dei saggi e la sicurezza di chi ha resistito ai pericoli del viaggio
pur di dare seguito a un Sogno.
Hanno viaggiato, e
hanno accumulato vita in quel viaggio e questo basta
a regalare alle loro parole una pienezza che fa paura.

A te che ascolti e che non sai
cosa vuol dire lasciare tutto senza sapere,
a te che non sai
cosa vuol dire credere ancora al futuro,
a te che non sai
cosa significhi mettere a repentaglio la vita o assaporare il terrore di infilare
tutto il futuro in una sacca e di rischiare,
in un colpo solo, di perdere tutto,
a te,
tutta questa vita inizia a far male.
Sono lame quegli sguardi.
Non lo capisci subito
ma l’inquietudine che ti lasciano quegli occhi orientali non te la toglierai più di dosso,
te la sognerai anche di notte.

Gli occhi dei Magi.
E non ti sentirai più al sicuro nel tuo Palazzo.
Non lo capisci subito,
lo capisci solo dopo,
che quel mondo da cui ti sei difeso,
che hai tenuto lontano, che hai dipinto come ostile ora ti è entrato dentro.
Solo dopo capisci che la visita dei Magi è la vita che sfonda le pareti della Città Santa,
è la vita che entra nella Scrittura,
è la fede che diventa domanda totale, semplice e definitiva:
“Dove è colui che è nato, il re dei Giudei?”.

Solo dopo capisci che
non puoi dire di aver fede
se i tuoi occhi non diventano come quelli dei Magi.

lunedì 2 gennaio 2017

Imparare ad accettare noi stessi e la nostra misura umile, è l’inizio di un vero percorso di maturità e di sapienza.


Giovanni intuisce che è proprio la presenza del Signore nella nostra vita a conferirci il senso più profondo e la lettura più pertinente. 
Tuttavia, non è scontato vivere di luce riflessa: 
c’è qualcuno – la prima lettura lo chiama “l’anticristo” – che vorrebbe farci cadere proprio nel percorso inverso. 
Se il Signore ci invita 
a non venir mai meno nel rapporto con lui, 
il nemico, invece, ci seduce a tal punto 
da mettere noi stessi al centro di tutto. 
Ma al prezzo di cadere in un grande disorientamento e di sperimentare una terribile infelicità.

Imparare ad accettare noi stessi e la nostra misura umile, 
è l’inizio di un vero percorso di maturità e di sapienza.

Non sono io… imparare a definirsi accettando di mettersi dei confini.

Non sono io… ma sei tu, Signore, colui che dà speranza ai miei giorni.

Non la maschera ma la realtà, 
non la recita ma l’impegno sincero. 
Giovanni ci insegna l’arte del fare un passo indietro 
per riconoscere che quello che di più vero io sono, 
lo devo ad un Altro, 
seguendo il quale posso scoprire chi io sono veramente.

Come vogliamo vivere questo tempo che la misericordia di Dio ci dona? 
Giovanni non esiterebbe ad attestare: 
“Bando alla menzogna. Restate saldi in ciò che non viene mai meno”.

Questa liturgia ci sollecita ancora a dare un nome a “coloro che cercano di ingannarci”. 
C’è un inganno che è fuorviante perché ci porta lontano da noi stessi. 
In guardia perciò dall’autoreferenzialità che rischia di essere una tomba anticipata.

Quanto mai appropriate ancora le altre parole di Giovanni: 
“In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete”. 
Se può essere facile accostarsi a un Dio Bambino, 
non lo è misurarsi con l’uomo di Nazaret. 
È facile ignorare un Dio che si fa presente discretamente tanto 
da non essere riconosciuto né accolto.

Antonio Savone il vangelo di oggi

domenica 1 gennaio 2017

nell’attesa dei cieli nuovi e delle terre nuove

"Tu sai, Signore,
che io amo pregarti seguendo i ritmi stagionali,
perché la preghiera non è
una petizione astratta o
un parlare con te che prescinda
dal momento di vita,
dalle situazioni,
dalle emozioni,
dai colori che vedono i nostri occhi,
dagli odori che vengono su dal suolo:
le foglie macerate dalla pioggia,
i funghi che nascono dai boschi,
la dolce ovatta delle nebbie…
Dacci dunque, Signore,
di comprendere il messaggio segreto dell’inverno:
di attendere la nuova primavera
nel pensiero,
nella speranza,
nell’attesa dei cieli nuovi e delle terre nuove
che tu farai risorgere dalle ceneri del mondo."
(Adriana Zarri)