sabato 1 marzo 2014

Bisogna esprimere concretamente la carica di umanizzazione che si radica nella fede in Cristo.


La testimonianza evangelica della carità deve essere un banco di prova decisivo della nostra scelta preferenziale dei poveri e al tempo stesso della nostra fede. Tre strade mi sembrano necessarie per vivere la carità senza cadere in forme alienanti e senza smarrire l'eccedenza evangelica della carità.
a. Uno stile cristiano di laicità.
E' importante operare partendo da valori cristiani ma sforzandosi di arrivare a gesti che, senza perdere nulla del mordente evangelico, raggiungano l'uomo in quei valori profondi che sono previ a qualunque confessionalità e comuni a tutti gli uomini. Bisogna esprimere concretamente la carica di umanizzazione che si radica nella fede in Cristo. Essa ha un'origine che non potremmo negare senza negare noi stessi e senza farci vanto di ciò che non è nostro (cf 1 Cor 4,7); poiché è puro dono di Dio, siamo chiamati a comunicarla a ogni uomo attraverso diversi modi e diverse forme culturali.

venerdì 28 febbraio 2014

Il primo dono di cui prendersi cura è la parola della fede da conservare e da trasmettere nella sua integrità e nella sua forza.


Nelle parabole della vigilanza, insieme - all'invito a stare desti rivolti al ritorno del Signore, vi è quello 
di custodire la casa, 
di far fruttificare i talenti, 
di provvedere di olio le lampade, 
di praticare le opere della misericordia, 
di prendersi cura dei doni di Dio.
Il primo dono di cui prendersi cura è la parola della fede da conservare e da trasmettere nella sua integrità e nella sua forza. 
E' singolare come Paolo, avvicinandosi alla morte, raccomandi con urgenza al discepolo il compito di custodire le "sane parole" (2 Tm 1,13), "le parole che hai udito da me" e di "trasmetterle a persone fidate" (2 Tm 2,2). 
Queste ultime esortazioni dell'Apostolo, accorate e imperative ("custodisci, attingi forza, ricordati, richiama alla memoria, guardati bene, rimani saldo, ti scongiuro...": (cf 2 Tm 1,14, 2,1.8 14; 3,5.14, 4,1) valgono per tutti i discepoli del Signore ai quali è affidato il buon deposito della fede, da custodire e da trasmettere. 
L'impegno missionario, proposto in Partenza da Emmaus (1983), trova qui la sua sorgente.

giovedì 27 febbraio 2014

la Chiesa è inizio del Regno, non ancora pienezza.

due sono i tratti caratteristici di una Chiesa che vive l'Eucaristia vigilando nell'attesa.

b. Il secondo tratto di una Chiesa che celebra l'Eucaristia nell'attesa è di vivere la tensione tra Chiesa e Regno: la Chiesa è inizio del Regno, non ancora pienezza. Dobbiamo impegnarci dunque per una teologia della gloria e insieme della debolezza della Chiesa.
La prima - quella della gloria - è dominata dalla certezza che non viviamo in un tempo vuoto e irrilevante: la Chiesa - abitata dallo Spirito di Gesù - è infatti segno, primizia del Regno.
La seconda - quella della debolezza - ci avverte che essa non è ancora del tutto compiuta, che è sempre protesa al Regno. Da qui nasce il suo costante bisogno di riforma, di conversione. Secondo le parole del Vaticano II, la Chiesa, pur essendo "santa", è imperfetta, "bisognosa di purificazione", e per questo "mai tralascia la penitenza", mai "cessa di rinnovare se stessa" (Lumen gentium, n. 8).
Il cammino ecumenico verso l'unità piena non può allora essere inteso quale semplice ritorno degli altri alla Chiesa così come ora si presenta. Tale cammino comporta lo sforzo di ciascuno per una conversione che renda più fedeli all'unico Signore e Maestro. Perciò la stessa Chiesa cattolica, senza smarrire la certezza di essere come "un sacramento o segno e strumento dell'intima unione con Dio", è entrata irreversibilmente nel cammino ecumenico, come ripetutamente ha sottolineato Giovanni Paolo II.
Una Chiesa vigilante, plasmata dall'Eucaristia "viatico" fino al ritorno del Signore, è in permanente stato di riforma, di purificazione e rinnovamento. Essa è ferita dalle divisioni e dai peccati dei suoi membri (14); a eccezione di Maria, la Chiesa porta sul volto "macchie e rughe" e i suoi figli si impegnano a lottare contro il peccato e a rinnovarsi continuamente.

martedì 25 febbraio 2014

Penso che nessun cristiano, con un minimo di cultura e voglioso di compiere un serio cammino interiore, giunga a dire di non avere tempo per leggere la Scrittura.


Vigilare, per il credente, non è semplice attesa di eventi magari catastrofici: è attesa di Qualcuno. Vigilano le dieci vergini in attesa dello Sposo (cf Mt 25,1-13); vigilano i servi in attesa del padrone e per sventare l'arrivo del ladro (cf Lc 12,27-39); vigila l'amico con l'orecchio teso a cogliere il segno di colui che sta alla porta e bussa (cf Lc 11,5-8, Ap 3,20). Vigiliamo perché la nostra vita attende il Signore, perché Dio ha riempito con la sua parola il vuoto che ci spaventa e che tentiamo di colmare mediante il rumore. "In Gesù Dio non solo ha comunicato con l'uomo, ma si è comunicato. Dio non solo è presente in lui, ma è una cosa sola con lui. Egli dunque è la parola piena e definitiva" (In principio la Parola, p. 64).
Negli anni scorsi ci siamo lasciati continuamente ispirare, partendo dalla seconda Lettera pastorale (del 1981) dalla forte affermazione del Concilio Vaticano II: "L'ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo. I fedeli devono accostarsi volentieri al sacro testo, sia per mezzo della sacra Liturgia ricca di parole divine, sia mediante la pia lettura... ricordandosi però che la lettura della Sacra Scrittura deve essere accompagnata dalla preghiera, affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l'uomo, poiché quando preghiamo parliamo con lui, lo ascoltiamo quando leggiamo gli oracoli divini" (Dei Verbum, n. 25). Sono sempre più persuaso che un'educazione all'ascolto del Maestro interiore passa per l'esercizio della lectio divina, della meditazione orante sulla parola di Dio, e non mi stancherò di ripetere che essa è uno degli strumenti principali con cui Dio vuole salvare il nostro mondo occidentale dalla rovina morale che incombe su di esso a causa dell'indifferenza e della paura a credere. La lectio divina è l'antidoto che Dio propone ai nostri tempi per farci superare il consumismo e il secolarismo, favorendo la crescita di quella interiorità senza la quale il cristianesimo non supererà la sfida del terzo millennio.
Penso che nessun cristiano, con un minimo di cultura e voglioso di compiere un serio cammino interiore, giunga a dire di non avere tempo per leggere la Scrittura. Non lo avrà per leggere il giornale, per vedere la televisione, per sorseggiare un aperitivo, per seguire le competizioni sportive; tuttavia dovrà trovare il tempo per dedicare alcuni minuti (inizialmente ne bastano dieci) alla lectio divina, la sera prima di addormentarsi, la mattina prima di iniziare il lavoro, durante una breve pausa a metà giornata. Assicurando questi tre momenti e collegandoli l'uno all'altro con il filo rosso della memoria orante del Vangelo del giorno o della domenica successiva, scopriremo quanto sono importanti per nutrire lo spirito.
Lo scopo delle Scuole della Parola - promosse in questi anni - è proprio quello di insegnare l'esercizio della lectio divina, di insegnare a mettersi personalmente di fronte al testo per pregare. Imparare a vivere della Parola, a stare nella Parola, significa imparare a vivere con gioia, con gusto, con sorpresa l'incontro con la parola di Dio scritta, che poi diventa incontro con Gesù che mi sta chiamando e al quale cerco di rispondere.
Perciò le Scuole della Parola, e ogni altra forma di lettura orante della Bibbia, sono un esercizio di vigilanza, ascolto di Colui che bussa, apertura del cuore affinché possa prendervi dimora.

lunedì 24 febbraio 2014

ciascuno è interiormente insidiato dal multiloquio mondano che con mille futilità ci distrae e ci disperde


Stile contemplativo e vigilanza sono accomunati dal silenzio,
poiché solo nel silenzio ci si può accorgere di Colui che sta alla porta e bussa.
Scrivevo infatti nella mia prima Lettera:
"L'uomo nuovo,
come il Signore Gesù che all'alba saliva solitario sulle cime dei monti (cf Mc 1,3; Lc 4,42; 6,12, 9,28),
aspira ad avere per sé qualche spazio immune da ogni frastuono alienante,
dove sia possibile tendere l'orecchio e
percepire qualcosa della festa eterna e della voce del Padre.
Ciascuno di noi è esteriormente aggredito da orde di parole, di suoni di clamori,
che assordano il nostro giorno
e perfino la nostra notte;
ciascuno è interiormente insidiato dal multiloquio mondano che con mille futilità ci distrae e ci disperde" (La dimensione contemplativa della vita, p. 21).
Anche Martin Heidegger, il grande filosofo contemporaneo,
ha indicato il silenzio come condizione essenziale dell'ascolto
e quindi della vigilanza:
"Nel corso di una conversazione, chi tace può 'far capire',
cioè promuovere la comprensione più autenticamente di chi non finisce mai di parlare... Tacere non significa però essere muto...
Solo il vero discorso rende possibile il silenzio autentico.
Per poter tacere l'uomo deve avere qualcosa da dire,
deve cioè poter contare su una apertura di se stesso ampia e autentica. In tal caso, il silenzio rivela e mette a tacere la 'chiacchiera"' (13).
E, sempre nella dimensione contemplativa della vita, ricordavo una significativa espressione di Clemente Rebora riguardante la sua conversione:
"La Parola zittì chiacchiere mie" (p. 20).

domenica 23 febbraio 2014

Pregando con attenzione e devozione (e con le dovute pause!) e meditando i testi liturgici, ci metteremo nel giusto atteggiamento dei pellegrini che riprendono ogni giorno il cammino verso la mèta.


Il grido di tutti è l'anelito comune in cui ci aiutiamo, ci riconosciamo viandanti deboli e peccatori pieni di nostalgia del volto del Signore, desiderosi di tendere a lui con più purezza e verità. Se ciascuno di noi entrerà nei sentimenti del pellegrino cristiano, di colui che veglia nell'attesa dello Sposo, sarà più facile e più lieto il compito di camminare insieme nella continua conversione e nella gioia.
Per vivere tali atteggiamenti nulla è più efficace della liturgia.
Essa, soprattutto nella celebrazione eucaristica, è continuamente percorsa da aperture escatologiche, stimoli a guardare verso la patria celeste, desideri di eternità. Pregando con attenzione e devozione (e con le dovute pause!) e meditando i testi liturgici, ci metteremo nel giusto atteggiamento dei pellegrini che riprendono ogni giorno il cammino verso la mèta. La dimensione dell'attesa vigilante, del resto, è iscritta nella natura stessa della liturgia: "Ogni rito vive di memoria e si alimenta di speranza, annuncio dell'evento da cui è scaturita la salvezza e profezia che ne anticipa il compimento... Mentre attende e prega, la Chiesa sa che la sua attesa non andrà delusa, e che la sua preghiera non rimarrà senza esito" (11).