Cor 9, 24-25 Io corro, ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l'aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato.
Pregare non è dire preghiere: pregare è rotolare nel buio della tua luce, e lasciarci raccogliere, e lasciarci parlare, e lasciarci tacere da te. Pregare sei tu che preghi, tu che respiri, tu che mi ami; ed io mi lascio amare da te. Pregare è un prato d’erba; e tu ci passi sopra.
La notte cala su di noi, e ci ritroviamo privi della serenità e delle realizzazioni dei nostri padri. Non credo che questo sia necessariamente un segno dì fallimento, ma forse un miglior motivo di confidare più pienamente nella misericordia di Dio e di entrare più a fondo nel suo mistero. La nostra fede non può più servirci solamente da tranquillante. È necessario che sia la Croce e la Resurrezione di Cristo. E lo sarà, per tutti coloro che lo desiderano.
Tu, accogli la luce della candela che i piccoli accendono all’alba e alla sera, che all’aurora gridano chiedendo in prestito le tue ali e trovare riposo.
Tu, accogli la lotta dei piccoli, la loro ricerca di pace mille volte sognata e attesa non senza tremore. Gli anni duri di pazienza e fedeltà per poter fare della vita una luce.
Tu, ti riveli ai piccoli che fanno di ogni ombra una freccia di luce, che si aprono come fiore del mattino.
Io temo uomini e fedi dei saggi e degli intelligenti, che non provano neanche un istante a stare nel presente, a respirare nel giardino di Dio.
Giovanni Testori nel Novembre 1979 commentando il libro di Giampiero Beltotto "Ho intervistato il silenzio", tra l'altro, ha fatto questa riflessione. Dunque la presenza, che è discretissima, epperò ferma e totale; poi, l’affabilità; quindi, la giustezza delle parole; la giustezza del loro peso che non è mai di troppo e che non è di meno; la loro lucidità, che si rivela tanto più naturale, quanto più l’argomento s’alza verso le pronunce assolute o scende verso gli abissi più profondi, verso i più profondi e difficili problemi dell’oggi. Nulla evitano, queste suore di carità, di silenzio, di preghiera, di lavoro e, primariamente, d’amore; nulla di ciò che è l’uomo e di ciò che è il mondo; pur avendo, apparentemente, lasciato uomo e mondo. Scrivo apparentemente poiché pochi esseri, pochi figli di Dio, sono così dentro il mondo, dentro le sue ragioni e la sua vera salvezza, come queste suore. L’offerta della loro vita a Cristo e, in Cristo, ai loro fratelli è totale. Ma non è totale perché si pongano sopra l’uomo ed il mondo, bensì perché vi sono dentro, strette e abbracciate fino all’ultimo respiro. E sono dentro il mondo, molto più di noi che spesso trasformiamo le difficoltà del vivere nell’alibi dell’autodrammatizzazione; per non voler ammettere che esistiamo solo in quanto apparteniamo alla suprema Volontà di Dio, alla sua suprema Intelligenza e al suo supremo Amore. Tutto questo non è detto solamente per la forza dell’umiltà, della preghiera e del lavoro; è detto perché pochi libri scritti stando dentro il mondo dimostrano una cognizione del mondo così profonda, oggettiva, fisica e incarnata, come questo che è scritto stando fuori. Sembra quasi che, nel convento di Vitorchiano, penetrino del mondo i gangli più terribili e dolorosi, le più terribili e dolorose domande; ma non per essere escluse o lasciate; bensì per venire affrontate, capite, sciolte e redente nella continuità della Speranza. Ecco: la grande protagonista di questo breviario cristico, è lei, la Speranza. In questa conversazione che Giampiero Beltotto ha condotto con fermezza, senza abdicare a nulla, neppure alle interrogazioni più aspre e segrete, noi non avvertiamo nessuna ombra di privilegio; e men che meno per loro, le suore di clausura. Il senso del loro essere parte dal corpo di Cristo le induce a pronunciare parole d’assoluta partecipazione, d’assoluta parità e d’assoluta uguaglianza con chi è parte del corpo di Cristo fuori, cioè a dire nelle città, nei paesi, nelle fabbriche, nelle scuole e negli uffici. Tutto qui, preghiera, adorazione, lavoro e parola acquista la sua dignità e la sua grandezza dentro il bisogno e la fame di salvare l’uomo. Perché, come dice una di esse: «Dio crea l’uomo senza l’uomo, ma non salva l’uomo senza l’uomo». Del resto, poco dopo, viene pronunciata la verità prima, quella verità che lo spiritualismo moderno ama spesso travisare: «Dio non è una idea, è una persona».
Il mistero, infatti, e cioè il divino che permea ogni realtà, non si offre alla nostra intelligenza alla quale risulta per lo più accecante, ma alla nostra capacità di stupore. Si narra, nel libro dei Giudici, che Manoach, il futuro padre di Sansone, all’angelo che per la seconda volta lo rassicurava in ordine alla nascita di un figlio tanto desiderato quanto inatteso, rivolse questa domanda: «“Come ti chiami, perché quando si saranno avverate le tue parole, noi ti rendiamo onore?”. L’angelo del Signore gli rispose: “Perché mi chiedi il nome? Esso è meraviglia”» (Gdc 13,18). Antonio Gentili
La consapevolezza consiste nel renderci perfettamente trasparenti alla verità profonda di ogni realtà: di se stessi, degli altri, delle cose, degli eventi e di Dio. Chi coglie le verità - attraverso l’introspezione, non meno che ponendosi dinanzi allo specchio della parola di Dio ed entrando in dialogo con la propria guida spirituale - chi la coglie, dicevamo, non può non operare il bene, fosse pure la sua azione in contrasto con la legge. E per questo è detto beato. All’opposto, dovrà essere considerato maledetto e trasgressore non chi contraddice materialmente alla legge, ma chi non la osserva per mancanza di consapevolezza. Forse questo secondo aspetto parrà più problematico, che cioè sia privo della beatitudine chi disattende alla legge, non rendendosi conto di quello che fa (o non fa), ma basta pensare all’importanza che in tutta la Bibbia riveste l’intenzionalità, la presenza a se stesso, la vigilanza. Sono note le messe in guardia rivolte, nell’Antico Testamento, al popolo giudaico, in ordine all’Alleanza (Dt 4,23), al Decalogo (Dt 8,1), alla preghiera (Dt 6,4). In questo caso si raccomandava di recitare lo Shemà, l’«Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è l’unico» (Dt 6,4), conkawwanah, ossia con grande concentrazione, prolungando la parola “unico”, finché non si fosse riconosciuto «Dio re, in alto e in basso e ai quattro angoli del cielo», come si legge nel Talmùd babilonese. Nel Nuovo Testamento è vigorosamente sottolineata l’esigenza di vigilare, come vedremo meglio a suo tempo. Consapevolezza: una beatitudine (Antonio Gentili)