sabato 10 maggio 2014

il Signore sa dosare perfettamente, tanto nel cammino individuale quanto in quello della Chiesa nel suo insieme, l’alternanza della prova e della consolazione, della persecuzione e della pace, che, come avviene per le stagioni che si susseguono sulla terra, garantiscono la fioritura della vita cristiana.


At 9,31-42 “La Chiesa cresceva, colma del conforto dello Spirito Santo”
Salmo 115 “Ti rendo grazie, Signore, perché mi hai salvato”
Gv 6,60-69 “Da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”

Le letture di questo giorno presentano chiaramente l’azione dello Spirito in quanto datore di vita, che agisce nella parola della predicazione apostolica. Così, negli Atti degli Apostoli, Pietro è raffigurato nel suo ministero di guarigione, ministero derivante a sua volta da quello della Parola, che infatti, nel vangelo odierno, è definita da Cristo “Spirito e vita”. Questa Parola, che Cristo stesso consegna ai suoi Apostoli perché la trasmettano alla Chiesa, non soltanto fa conoscere Dio, comunicando delle informazioni su di Lui, ma introduce soprattutto la comunità cristiana nella dinamica della salvezza, ossia in una nuova energia di vita che è capace di vincere qualunque genere di infermità e di morte.
Il versetto chiave che collega le due letture è costituito da Gv 6,63: “E’ lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita”. Questa espressione, accostata al testo degli Atti, offre una particolare chiave di lettura per il ministero di guarigione di Pietro, che sembra essere la conseguenza naturale del ministero della Parola. Colui che è chiamato da Dio a far risuonare la Parola, essendo la Parola essa stessa Spirito, comunica la vita a coloro che l’accolgono nella fede, e ciò si verifica per una forza intrinseca che opera nella predicazione e che manifesta tutta la sua efficacia in coloro che credono.
Il testo degli Atti si apre descrivendo un periodo di pace che la prima comunità cristiana sperimenta come una tregua tra le persecuzioni da parte del giudaismo. Gli Atti degli Apostoli non raccontano soltanto le persecuzioni – ci sono stati indubbiamente dei tempi difficili di condanna, di carcere, di fustigazione per la prima generazione dei cristiani e si è visto come questi tempi difficili siano accompagnati da una particolare vicinanza di Dio - ma raccontano anche i tempi di pace, perché non si creda che la vita cristiana, pur essendo incentrata sul mistero pasquale di morte e risurrezione sia solo combattimento, persecuzione e prova; è anche questo, ma il Signore sa dosare perfettamente, tanto nel cammino individuale quanto in quello della Chiesa nel suo insieme, l’alternanza della prova e della consolazione, della persecuzione e della pace, che, come avviene per le stagioni che si susseguono sulla terra, garantiscono la fioritura della vita cristiana.
L’evangelista Luca, nel testo odierno degli Atti, descrive dunque un tempo di pace che Dio ha garantito alla Chiesa e che viene identificato, nella sua modalità, da due espressioni relative all’atteggiamento della Chiesa: “essa cresceva e camminava nel timore del Signore, colma del conforto dello Spirito Santo” (At 9,31). La gioia cristiana è infatti qualcosa di diverso che non semplicemente un benessere, una condizione gradevole alla propria sensibilità. La gioia cristiana è qualcosa di più profondo, è soprattutto un dono che scende dall’alto, più che la conseguenza di una tregua, o il frutto di circostanze favorevoli. Per questo, il conforto dello Spirito viene collegato da Luca al timore del Signore, intendendo dire che nessuno può gustare la gioia dello Spirito senza sottomettersi incondizionatamente ai decreti di Dio, all’alternanza dei tempi stabiliti da Lui, al modo in cui Egli dosa pace e persecuzione, sofferenza e consolazione. Tale dosaggio risponde a una logica comprensibile solo all’intelligenza divina. Tutt’al più può avvenire che nel volgere di lunghi anni, e dopo tante evoluzioni, possiamo acquisire maggiori elementi per capire un po’ di più l’opera di Dio nella nostra vita. E ciò nel contesto di una incondizionata e perseverante sottomissione a quel che Dio decreta per noi, giorno dopo giorno, anche quando lo scopo ultimo degli eventi non è subito comprensibile. Perciò il timore del Signore, che rappresenta appunto il sentimento che accompagna l’ubbidienza del figlio, è la base su cui il conforto dello Spirito può diffondersi nella vita della Chiesa come anche in quella del singolo credente.
Don Vincenzo Cuffaro

venerdì 9 maggio 2014

un uomo che non ha forza di volontà, che non ha lo slancio di impegnare la propria vita per un ideale e la disponibilità a soffrire per portare avanti ciò in cui crede, difficilmente potrà giungere ad un’esperienza piena della fede cristiana

At 9,1-20      “Egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli”
Salmo 117    “Splenda sul mondo, Signore, la luce del tuo vangelo”
Gv 6,52-59   “La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda”

La liturgia odierna accosta il brano della conversione di Saulo, narrato nel libro degli Atti, al testo evangelico di Giovanni, dove Gesù parla del proprio Corpo come cibo e nutrimento dell’uomo; colui che mangia di Cristo, vive di Cristo, ossia della sua stessa Vita. Il testo degli Atti, narrando la conversione di Saulo, ci lascia anche intravedere delle verità che accompagnano il venire alla fede di ogni uomo in ogni tempo:  Saulo, il persecutore dei cristiani, viene presentato nell’atto di arrestare e condurre in catene a Gerusalemme, uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo; ma al tempo stesso, proprio nel bel mezzo di questo combattimento contro la comunità cristiana, Saulo viene raggiunto da Dio nel Cristo risorto, che si rivela a lui come “il Signore”. Questo è un primo elemento che va sottolineato, e che vale non soltanto per la conversione di Saulo ma anche per ogni conversione e ogni processo del venire alla fede. Nessuno può giungere infatti a una scelta precisa, o a uno schieramento nei confronti di Dio, se non è capace di schierarsi in qualche modo anche in altri ambiti; in sostanza, un uomo che non ha forza di volontà, che non ha lo slancio di impegnare la propria vita per un ideale e la disponibilità a soffrire per portare avanti ciò in cui crede, difficilmente potrà giungere ad un’esperienza piena della fede cristiana.
La descrizione di Saulo come uno sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, è l’immagine di un uomo capace di impegnarsi per degli ideali e di giocarsi la vita per un valore di coscienza. Saulo come persecutore non è un uomo che arbitrariamente agisce solo per il gusto della violenza, per un abuso di potere o un desiderio gratuito di combattere solo per contrapporsi a qualcosa. Non è certamente questa la verità dell’uomo Saulo; la persecuzione che egli porta avanti contro i cristiani rappresenta uno schieramento, una scelta di coscienza unita alla convinzione di portare avanti i propri ideali migliori e di combattere contro ciò che per lui è una dottrina fuorviante, un’eresia del giudaismo. Proprio perché Saulo è un uomo capace di schierarsi e di impegnare le proprie energie per un ideale, in forza di questa sua disposizione d’animo viene raggiunto dalla rivelazione di Cristo che gli chiede di orientare nella direzione giusta tutte le proprie energie al servizio autentico di Dio. Saulo era in coscienza convinto che perseguitare i cristiani fosse già un servizio al Regno di Dio.
Don Vincenzo Cuffaro

giovedì 8 maggio 2014

E’ Dio che prepara incontri e coincidenze nel tempo opportuno


At 8,26-40 “Filippo annunziò all’etiope la buona novella di Gesù”
Salmo 65 “La tua salvezza, Signore, è per tutti i popoli”
Gv 6,44-51 “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo”

La Parola odierna ruota intorno ad un detto profetico, citato esplicitamente da Gesù nel suo discorso rivolto alle folle: “Sta scritto nei profeti: E tutti saranno ammaestrati da Dio” (v. 45). Ma l’ammaestramento derivante da Dio non implica un rapporto solipsistico e personale, che ciascuno debba stabilire con Dio, come se la persona umana fosse una monade o un’isola indipendente. Il testo degli Atti, che è accostato oggi al brano evangelico di Giovanni, sembra voler rispondere a questo problema, a cui non si ci può sottrarre: l’annuncio profetico indica un tempo in cui tutti saranno ammaestrati da Dio. Ma in cosa consiste essere ammaestrati da Dio? Consiste forse in un rapporto autonomo con la verità? Si tratta di un filo diretto con il Signore, di cui ciascuno può fruire, o è qualcos’altro?
A questa domanda risponde il racconto degli Atti, mediante l’incontro di Filippo con un funzionario della regina di Etiopia. Il loro incontro è una risposta narrativa alla domanda di partenza: “cosa significa essere ammaestrati da Dio?”. I versetti chiave di questo testo lucano ci aiuteranno a cogliere le caratteristiche reali e, potremmo anche aggiungere, ecclesiali dell’essere ammaestrati da Dio. Il testo odierno si apre con un’introduzione che suona così: “In quei giorni, un angelo del Signore parlò a Filippo” (v. 26). Il contenuto di questa comunicazione divina è: “Alzati, e va’ verso il mezzogiorno, sulla strada che discende da Gerusalemme a Gaza” (v. 26); su questa strada Filippo incontrerà l’Etiope, funzionario della regina Candace. Qui troviamo una prima risposta alla domanda su come si è ammaestrati da Dio. Il Signore manda un messaggero, che in questo caso è Filippo, per farci conoscere la sua Parola. A sua volta il messaggero, ossia colui che custodisce la testimonianza della verità del vangelo, non sceglie né il luogo né il destinatario della sua testimonianza: un angelo del Signore parlò a Filippo e gli disse: “Alzati e va verso mezzogiorno sulla strada che discende da Gerusalemme a Gaza”. L’indicazione è terribilmente particolareggiata nello spazio e nel tempo: in quel luogo e in quell’ora, Dio ha predisposto un incontro che sarà l’inizio della salvezza per il funzionario della regina. Allora, se ci chiediamo di nuovo “Come si è ammaestrati da Dio?”, possiamo rispondere così: “Mediante i suoi messaggeri, i quali non scelgono né il luogo, né il tempo, né i destinatari. E’ Dio che prepara incontri e coincidenze nel tempo opportuno”.  
Don Vincenzo Cuffaro

mercoledì 7 maggio 2014

ancora una volta siamo ricondotti fino al cuore del cristianesimo: il “mistero pasquale”, stupenda strategia con cui il Signore vince attraverso la sua apparente sconfitta


At 8,1-8 “Andavano per il paese e diffondevano la Parola di Dio”
Salmo 66 “Grandi sono le opere del Signore”
Gv 6,35-40 “Questa è la volontà del Padre: chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita”

In entrambi i testi della liturgia odierna viene sottolineato che Dio “non è il Dio dei morti, ma il Dio vivente, e tutti vivono per Lui”, per utilizzare un detto di Gesù ai sadducei; Egli agisce in favore della vita, comunicando la vita. Così, il testo lucano presenta l’evangelizzazione della Palestina, e focalizza in particolare la figura di Filippo: il suo passaggio è un trionfo della vita, è la salute che si irradia intorno al passaggio dell’Apostolo. Sulla scia dell’annuncio della Parola del vangelo vengono liberati gli indemoniati, guariti i paralitici: “Da molti indemoniati uscivano spiriti immondi, emettendo alte grida e molti paralitici e storpi furono risanati” (v. 7). Così, ripetutamente, nel testo evangelico torna il tema della volontà di Dio che è la salvezza dell’uomo e non la sua rovina: “questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno… chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (vv. 39-40).
In particolare, il testo degli Atti sottolinea alcuni aspetti del passaggio della vita, che si realizza sempre laddove il vangelo viene annunciato nello Spirito. In primo luogo, dal racconto si evince che la persecuzione accompagna ogni atto di servizio autentico al Regno di Dio: ogni atto di autentica obbedienza alla volontà di Dio si scontra con una incomprensibile opposizione, che assume tante forme, talvolta violente talaltra occulte, esplicite o implicite. Il mistero dell’iniquità è sempre operante nel mondo e si erge ovunque a barriera contro la verità del vangelo. Lo stesso diacono Stefano, che poi verrà lapidato, nel discorso pronunciato davanti al sinedrio dice: “Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato?” (At 7,52); non c’è nessuno che, incamminatosi autenticamente nelle vie di Dio, non si scontri prima o poi con il mistero dell’iniquità e con l’azione segreta e occulta dello spirito delle tenebre. Quando il cammino cristiano diventa profondo, diventa anche pericoloso per il regno di Satana; allora cominciano delle lotte, degli impedimenti in diversi campi, cominciano strane incomprensioni familiari, che prima della conversione non si erano mai verificate. Insomma, scoppia una guerra che si combatte principalmente a livello dello spirito. Luca osserva, però, che l’opposizione dello spirito delle tenebre contro il vangelo, non fa che aumentare la sua efficacia; l’azione del Maligno, che tenta di frenare il cammino di santità, non fa altro che renderlo più veloce, aumentando la santità del battezzato. Almeno per coloro che sanno affrontare tali tribolazioni con spirito evangelico. Infatti, dopo avere detto che “In quel giorno scoppiò una violenta persecuzione contro la chiesa” (v. 1), Luca aggiunge: “quelli però che erano stati dispersi andavano per il paese e diffondevano la Parola di Dio” (v. 4). La diffusione maggiore della Parola di Dio è, insomma, una conseguenza diretta della persecuzione che si è scatenata contro la chiesa di Gerusalemme. Filippo personifica perciò l’efficacia che la Parola di Dio acquista quando viene combattuta dal suo avversario; ancora una volta siamo ricondotti fino al cuore del cristianesimo: il “mistero pasquale”, stupenda strategia con cui il Signore vince attraverso la sua apparente sconfitta; così come Cristo vince attraversando la morte, nella stessa maniera, la Chiesa fiorisce tutte le volte in cui viene colpita.
Don Vincenzo Cuffaro

martedì 6 maggio 2014

La forza di questa sapienza ispirata deriva dal pieno coinvolgimento personale di Stefano nel disegno Dio e nella verità che lui testimonia vivendola fino in fondo, tanto che sarà capace di morire per essa.


At 7,51-8,1 “Signore Gesù, accogli il mio spirito”
Salmo 31 “Alle tue mani, Signore, affido la mia vita”
Gv 6,0-35 “Non Mosè, ma il Padre mio vi da il pane dal cielo”


Abbiamo già visto come, nel brano della prima lettura di ieri, il Signore sostiene la testimonianza dei suoi servi. La divina convalida dell’autenticità dei servi di Dio, non avviene in primo luogo in maniera carismatica, bensì mediante la forza della verità che si irradia nella vita e nella parola di chi vive nello Spirito. Il momento della convalida carismatica della santità di Stefano, infatti, come abbiamo già visto, arriva soltanto alla fine del brano, quando contro di lui si erge la durezza e la persecuzione della sinagoga. Ma in un primo momento, la maniera normale con cui Dio convalida la sua santità, non è il miracolo, né il segno carismatico. È soltanto la luminosità della propria vita, dinanzi alla quale si ha l’impressione di un messaggio che s’impone con la forza stessa della verità, appunto perché non è fatto esclusivamente di parole, ma è un messaggio che emana, per così dire, dalla persona del servo di Dio. Per questa ragione, Luca, autore degli Atti, nel raccontare il brano della persecuzione contro Stefano, sottolinea il fatto che egli parla con una sapienza ispirata e irresistibile per i suoi avversari. Non si tratta quindi di parole, di retorica, o di argomentazioni persuasive. La forza di questa sapienza ispirata deriva dal pieno coinvolgimento personale di Stefano nel disegno Dio e nella verità che lui testimonia vivendola fino in fondo, tanto che sarà capace di morire per essa. Stefano attribuisce al peccato contro lo Spirito l’incapacità della sinagoga giudaica di riconoscere la verità della sua testimonianza. In termini pratici: tutte le volte in cui ci si trova davanti una persona che vive la sua fede cristiana fino in fondo, e che esprime con la sua vita un messaggio convincente, il fatto di rifiutare tale messaggio costituisce in se stesso un peccato contro lo Spirito. Si può resistere, infatti, a una testimonianza fatta di parole, che magari non reggono al confronto con la vita di chi le ha pronunciate; ma quando la parola della testimonianza cristiana è pienamente armonizzata con la vita del testimone, e questo messaggio non è accolto come veritiero dai suoi destinatari, allora in ciò si può dire senz’altro che consista una delle forme del peccato contro lo Spirito. 
Don Vincenzo Cuffaro 

lunedì 5 maggio 2014

la prima conferma della verità del vangelo, è interna, e si realizza nei termini di una interiore attestazione dello Spirito nella coscienza degli ascoltatori. Questa conferma è molto più forte di quella dei segni carismatici, in quanto è interiore, mentre il miracolo è sempre un fenomeno esterno.


At 6,8-15 “Non riuscivano a resistere alla sapienza ispirata con cui Stefano parlava”
Salmo 119 “Beato chi cammina nella legge del Signore”
Gv 6,22-29 “Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna”

L’insegnamento delle letture di questa giornata ci riporta alla natura della testimonianza cristiana, nel suo carattere duplice, in quanto Dio conferma la testimonianza del cristiano con la sua. Possiamo parlare in senso proprio di evangelizzazione e di testimonianza cristiana solo quando il Signore opera contemporaneamente ai suoi discepoli, confermando la testimonianza umana coi segni che l’accompagnano. Questo tema viene affrontato dalle letture odierne con la precisazione che, anche quando la testimonianza cristiana e l’evangelizzazione sono autentiche, questo fatto non comporta necessariamente una conversione dei destinatari dell’annuncio. In sostanza, è vero che Dio conferma sempre la parola dei suoi servi, ma tale conferma non costituisce un’imposizione della conversione. Se da un lato è necessario che Dio confermi, con la sua azione potente, la vita e la parola dei suoi servi, perché l’evangelizzazione sia autentica, dall’altro lato, la libertà dei destinatari non ne viene minimamente intaccata.
La figura del diacono Stefano incarna l’ideale dell’evangelizzazione in cui Dio conferma la parola del suo servo, lasciando tuttavia libera la decisione dei destinatari; notiamo subito che il modo in cui il Signore interviene per confermare la parola di Stefano non è in un primo momento di natura carismatica. È vero che la Parola della predicazione può essere accompagnata da segni carismatici, ma non è necessario che essi ci siano: infatti, la conferma divina non si esaurisce nei segni straordinari dello Spirito Santo; anzi, la prima conferma della verità del vangelo, è interna, e si realizza nei termini di una interiore attestazione dello Spirito nella coscienza degli ascoltatori. Questa conferma è molto più forte di quella dei segni carismatici, in quanto è interiore, mentre il miracolo è sempre un fenomeno esterno. Sono in errore coloro i quali ritengono che un segno carismatico forte, possa convincere gli atei dell’esistenza di Dio. Essi dimenticano che dopo la risurrezione di Lazzaro, i farisei deliberarono di uccidere anche lui (cfr. Gv 12,10), e che il ricco epulone, desiderando che i suoi fratelli si convertissero dalla loro vita scioperata, chiese ad Abramo di mandare loro qualcuno dall’aldilà per avvertirli, sentendosi rispondere però: “Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro. Se non ascoltano Mosè e i profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti, sarebbero persuasi” (Lc 16,29-31). Questa risposta di Abramo è di estremo interesse, in quanto nega al miracolo una qualche efficacia di convincimento; il segno carismatico, quando c’è, è inevitabilmente esteriore. La forza della verità, invece, si afferma nella coscienza dell’uomo retto, senza alcun appoggio esteriore. Chi non si sente intimamente conquistato dalla forza della verità, difficilmente potrà essere conquistato esteriormente da un evento straordinario, la cui interpretazione potrebbe essere comunque manipolata ad arte. Nell’ipotesi che Abramo avesse acconsentito alla richiesta del ricco epulone, e avesse mandato qualcuno dall’aldilà ad avvertire i suoi fratelli, chi avrebbe potuto scalfire le loro convinzioni materialistiche, nel caso in cui avessero interpretato l’apparizione del defunto Lazzaro, come un’allucinazione o come un sogno a occhi aperti? E in definitiva, a queste condizioni, la visita del defunto dall’aldilà, non avrebbe confermato il loro ateismo, anziché metterlo in crisi?
Don Vincenzo Cuffaro

domenica 4 maggio 2014

Quando lo sconosciuto compagno di viaggio chiede informazioni ai discepoli di Emmaus circa gli eventi della Pasqua, questi ne danno un resoconto centrato solo sul presente. Non vi è nelle loro parole alcun riferimento alla Parola, alla quale avrebbero dovuto volgersi per capire la volontà di Dio. Ciò dimostra che essi non sono stati in grado di leggere gli eventi relativi al ministero pubblico di Gesù alla luce delle Scritture. È mancata una chiave indispensabile per aprire i segreti di Dio e per capire la storia e il tempo che trascorre.


At 2,14.22-33 “Non era possibile che la morte lo tenesse in suo potere”
Sal 15/16 “Mostraci, Signore, il sentiero della vita”
1 Pt 1,17-21 “Foste liberati con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza
macchia”
Lc 24,13-25 “Lo riconobbero nello spezzare il pane”

La Parola odierna è interamente determinata dal rapporto tra le antiche profezie e gli eventi pasquali di Passione-Morte-Risurrezione. Ciò che negli ultimi tempi si è realizzato in Cristo corrisponde, insomma, a un disegno ampiamente annunciato dall’AT. La liturgia si apre infatti col discorso di Pietro, pronunciato nel giorno di Pentecoste, in cui l’Apostolo fa leva sul “prestabilito disegno e la prescienza di Dio” (v. 23). Il medesimo Apostolo esprime lo stesso concetto nella seconda lettura, dove afferma che Cristo era stato predestinato come Agnello pasquale “già prima della fondazione del mondo” (v. 20). Infine, nel brano evangelico lo stesso Cristo, Risorto dai morti e apparso sotto una sembianza irriconoscibile ai discepoli di Emmaus, riprende tutte le Scritture – ossia l’AT – e mostra che esse si riferivano a Lui. Punto di riferimento della liturgia della Parola odierna – come in tutto il tempo di Pasqua – è il vangelo che narra l’apparizione del Risorto. L’incontro dei discepoli di Emmaus col Signore risorto è talmente pieno di spunti teologici e spirituali che occorrerebbe un’analisi accurata per esaurire l’argomento. Ad ogni modo, a noi interessano i punti di contatto che giustificano l’accostamento delle letture. La base della scelta dei brani di oggi, come abbiamo accennato, è costituita dalla realizzazione delle profezie fatte a riguardo di Cristo nell’AT. Quando lo sconosciuto compagno di viaggio chiede informazioni ai discepoli di Emmaus circa gli eventi della Pasqua, questi ne danno un resoconto centrato solo sul presente. Non vi è nelle loro parole alcun riferimento alla Parola, alla quale avrebbero dovuto volgersi per capire la volontà di Dio. Ciò dimostra che essi non sono stati in grado di leggere gli eventi relativi al ministero pubblico di Gesù alla luce delle Scritture. È mancata una chiave indispensabile per aprire i segreti di Dio e per capire la storia e il tempo che trascorre. Il Risorto rimprovera senza mezzi termini i due discepoli, colpevoli di ignoranza biblica, la quale non si può mai scindere dall’incredulità: “Stolti e lenti di cuore” (v. 25). L’ignoranza delle Scritture, vale a dire il disinteresse circa la divina Rivelazione, è determinata proprio dalla mancanza di fede. Per chi non ha fede, infatti, la parola di Dio non è un punto di riferimento, bastando il proprio buonsenso. I discepoli di Emmaus, troppo preoccupati per il destino storico dello stato di Israele, si sono fermati al di qua della fede. Lo stato di Israele non ha ottenuto la libertà dal dominio romano. Tutto è finito. A questo punto, il Risorto si vede costretto a riprendere da zero le catechesi mistagogiche: “E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (v. 27). Giunti a casa, dopo la spiegazione della Parola, primo nutrimento, Gesù prepara una seconda mensa, offrendo il pane spezzato (cfr. v. 30). Qui la sua rivelazione personale raggiunge il culmine, ma proprio nel momento in cui lo riconoscono, Egli scompare. Il Risorto vive e cammina nel tempo coi suoi discepoli, ma sotto una sembianza irriconoscibile, costituita dalla Parola e dall’Eucarestia. Il Risorto è accessibile solo nei suoi segni, ma Lui, come persona, resta inevitabilmente aldilà, inafferrabile. Qualcosa di simile alla catechesi biblica di Gesù ai discepoli di Emmaus, la fa Pietro ai cittadini di Gerusalemme nel giorno di Pentecoste quando, a nome dei Dodici, pronuncia il kerygma cristiano della morte e risurrezione di Cristo, motivandola però biblicamente, mediante il riferimento esplicito al libro dei Salmi, che sembra parlare di Davide ma evidentemente – come spiega Pietro molto bene – non è così. Colui che non fu abbandonato negli inferi non è Davide ma un suo discendente: Cristo Gesù. Nella seconda lettura, Pietro riprende l’argomento, ma alla luce della consapevolezza di ciò che la nostra redenzione ha comportato: il Sangue prezioso di Cristo, dunque non un riscatto corruttibile, ma un prezzo incredibilmente alto.
  Don Vincenzo Cuffaro