sabato 17 luglio 2010

come la spiaggia ascolta la storia delle onde

Farò della mia anima uno scrigno
per la tua anima,
del mio cuore una dimora
per la tua bellezza,
del mio petto un sepolcro
per le tue pene.

Ti amerò come le praterie amano la primavera,
e vivrò in te la vita di un fiore
sotto i raggi del sole.

Canterò il tuo nome come la valle
canta l'eco delle campane;
ascolterò il linguaggio della tua anima
come la spiaggia ascolta
la storia delle onde.

(K.Jibran)

la comoda via dell'adattamento

Vivo come se un torrente mi attraversasse... Sempre così smisuratamente perduta ai margini della vita reale: difficilmente la vita reale mi avrà e se mi avrà sarà la fine di tutto quello che c'è di meno banale in me¹.

°

Chi ha la sua vita propria, non può accogliere in sé la vita varia, la vita che lo circonda, se questa non trova risonanza in lui, se egli non la sente come la sua stessa vita... Le anime deboli e schiave, che non hanno un contenuto di vita loro proprio, che non hanno una meta propria, che vivono alla mercé dell'esterno, orientate verso il mondo, con gli occhi fissi a questo e non al loro fine, sanno la comoda via dell'adattamento. Ma chi ha il proprio ideale, indispensabile, irrinunziabile, morrà, ma, finché vivrà, non potrà adattarsi².

Antonia Pozzi
¹da una lettera a Remo Cantoni
19 giugno 1935

da Lettere 1927-1938
²dai Diari, s.d.
Ed. Scheiwiller, Milano, 1988

...sine dilatione omne gaudium haurite

Voglio farvi una domanda:
il vostro denaro vale così tanto
vi comprerà il perdono
pensate che potrebbe?
Io penso che scoprirete
quando la morte esigerà il pedaggio
che tutti i soldi che avete accumulato
non serviranno a ricomprarvi l'anima

.........................................................
Bob Dylan

...sine dilatione omne gaudium haurite: nihil de hodierna nocte promittitur. Nimis magnam advocationem dedi: nihil de hac hora. Festinandum est, instatur a tergo: iam disicietur iste comitatus, iam contubernia ista sublato clamore solventur...

L. Annei Senecae
Ad Marciam, de consolatione, X, 4

[..assaporate senza indugio ogni gioia. Non ci è assicurata neppure la prossima notte, anzi, vi ho dato un termine troppo lungo: neppure l'ora presente. Bisogna affrettarsi, siamo incalzati alle spalle: questa compagnia sarà presto dispersa, questo gruppo sparirà tra un levarsi di grida...] 


Parafrasando Jane Austen mi sento di dire che questo giorno è arrivato e passato senza che ce ne fosse un reale bisogno.
Amen. 
 

fatto libero dalle cose materiali

La pace della vita monastica non è una pace materiale, uno stato di agiata indolenza, garantita dalla mancanza di preoccupazioni e di responsabilità.
Riferendosi alla pace che soddisfa il corpo, invece che l’anima, Cristo disse d’esser venuto a portare "non la pace ma la guerra" (Mt. 10, 34).
La pace del monaco è in proporzione al suo distacco dalle cose della terra, e il distacco
non si conquista senza dura battaglia. La pax monastica non è la pace di chi trova appagati tutti i suoi desideri e bisogni terreni, ma di chi, con la grazia di Dio e con il combattimento ascetico, si è fatto libero dalle cose materiali ed ha dedicato tutta la vita alla ricerca del Regno di Dio.
Entrare nel Regno di Dio significa rendermi conto che Dio si prende cura di me con affetto e interesse paterni e che, fatta sinceramente la mia parte, è normale che mi abbandoni totalmente in Lui.
Il monaco è libero della libertà dei figli di Dio, la sua pace non è di questo mondo: egli è nascosto con Cristo in Dio.
La vita monastica è tanto più nascosta quanto più è
umile, solitaria e povera. Il monaco è per sua natura alieno dal ministero apostolico della predicazione quanto da prelature e dignità che lo esporrebbero alla vista degli uomini. Se, come gli Apostoli, egli è "spettacolo agli angeli e all’uomo", può esserlo solamente come esempio di un’oscura povertà da cui il mondo tende ad allontanarsi senza comprenderla. E il monaco, in cuor suo, aspira ad una solitudine sempre più grande, ad una sempre maggiore povertà ed umiltà. Se i disegni della divina Provvidenza possono, per qualche tempo, portarlo a svolgere un lavoro che lo espone alla vista della gente, egli sa, peraltro, che questo è un episodio del tutto occasionale nella sua vita; l’essenza della sua vocazione non cambia: rimane il richiamo alla solitudine, al nascondimento, alla rinuncia di sé.
È chiamato al deserto.

venerdì 16 luglio 2010

Il passato è passato. Fanne tesoro e lascialo andare. Neppure il futuro è qui. Fa' pure dei piani per il futuro, ma non sprecare il tempo a preoccupartene.

Thich Nhat Hanh, monaco e filosofo buddista del Vietnam,
ha spiegato in che modo gustare una buona tazza di tè.
Per godersi pienamente il tè,
occorre essere completamente calati nel presente.
Solo nella consapevolezza del presente
le tue mani possono sentire il piacevole calore della tazza.
Solo nel presente puoi assaporare l'aroma,
sentire la dolcezza,
apprezzare la delicatezza.
Se stai rimuginando cose passate o preoccupandoti del futuro,
perderai completamente l'esperienza di goderti la tazza di tè.
Anzi, guarderai nella tazza e il tè non ci sarà neppure più.
Con la vita è la stessa cosa.
Se non sarai calato pienamente nel presente,
ti guarderai intorno smarrito,
e lei se ne sarà già andata.
Perderai così il sentimento,
l'aroma,
la delicatezza e la bellezza della Vita.
Sarà come se la Vita ti passasse veloce davanti.
Il passato è passato.
Fanne tesoro e lascialo andare.
Neppure il futuro è qui.
Fa' pure dei piani per il futuro,
ma non sprecare il tempo a preoccupartene.
Non vale la pena preoccuparsi.
Quando avrai cessato di rimugiare ciò che è già accaduto,
quando avrai cessato di preoccuparti di cio che potrebbe accadere,
allora sarai calato nel momento presente.
Allora comincerai a sentire la gioia della Vita.
di ogni sciocchezza sanno fare un problema difficile a piacere.

«Possiamo definire questo genere di individui come quelli che, attraverso l'introduzione di nozioni appropriate, sono in grado di dare ad ogni problema, per quanto semplice sia, qualsiasi grado di difficoltà possa essere richiesto»

«Il lavoro scolastico, micidiale per certi caratteri, coatto, quasi meccanico, che, lungi dal costituire uno stimolo ad approfondire l’apprendimento, è senz’altro disamorante nei confronti di ogni disciplina, venne ad interrompere quel periodo, forse il più bello nella vita di un adolescente, in cui i presentimenti dell’ignoto fanno tutt’uno con i sentimenti per le ragazze, creando un alone di inconsapevole, metafisica stravaganza attorno alla grigia esistenza quotidiana».


(da Stanislaw I. Witkiewicz, Insaziabilità)

I confini dell'anima, nel tuo andare, non potrai scoprirli, neppure se percorrerai tutte le strade: così profonda è l'espressione che le appartiene.


(Eraclito)

Dev’esserci un colore da scoprire, un recondito accordo di parole.

Dev’esserci una chiave per aprire nel muro smisurato questa porta.

Dev’esserci un’isola più a sud, una corda più tesa e vibrante.

Un altro mare che nuota in un altro blu

Un’altra intonazione più cantante

Poesia tardiva che non riesci a dire la metà di quel che sai

Non taci quando puoi, non sconfessi questo corpo casuale e inadeguato.

Josè Saramago (1922-2010)

questo noi lo vediamo in realtà tutti i giorni e non ci fa la minima impressione

" Non vi sarebbe nulla di più straordinario che l'osservare un uomo intento a una semplicissima attività quotidiana mentre si crede inosservato. Immaginiamoci un teatro, il sipario si alza e noi vediamo un uomo solo nella sua stanza andare e venire, accendersi una sigaretta, mettersi a sedere, e così via; vedremo allora, improvvisamente, un essere umano dall'esterno, come non è mai possibile vedere se stessi; come se, per così dire, vedessimo con i nostri occhi un capitolo di una biografia, - tutto questo sarebbe inquietante e mirabile al tempo stesso. Più mirabile di tutto ciò che un  poeta potrebbe far rappresentare o dire sulla scena, noi vedremmo la vita stessa.- Ma questo noi lo vediamo in realtà tutti i giorni e non ci fa la minima impressione! Certo, ma noi non lo vediamo in questa prospettiva".
L. Wittgenstein

“A forza di ripeterle, le parole a poco a poco perdono il loro significato e il dolore che portano si attenua”.
 A. Kristoff

Ogni essere umano è, a modo suo, un caso, una deliziosa eccezione. E uno sguardo affascinato, poi critico, trasforma spesso l'individuo anormale in maestro di umanità.
Alexandre JOLLIEN

Vigilate sulla vostra menzogna ed esaminatela attentamente ogni ora, ogni minuto

" Se non perverrete alla felicità, ricordatevi sempre che vi trovate sulla buona strada, e sforzatevi di non uscirne. Sopratutto, evitate la menzogna, qualsiasi menzogna, e la menzogna verso voi stessa principalmente. Vigilate sulla vostra menzogna ed esaminatela attentamente ogni ora, ogni minuto. Badate pure di non cedere al disgusto, sia verso gli altri, sia verso voi stessa: ciò che in voi vi appare sordido, pel solo fatto che ve ne siete resa conto, verrà a purificarsi. Allo stesso modo non cedete alla paura, benchè la paura non sia altro che la conseguenza di qualsiasi menzogna. Non spaventatevi mai della vostra debolezza nel tendere all'amore e anzi perfino le vostre cattive azioni non vi spaventino troppo. Mi dispiace che non posso dirvi nulla di più consolante, giacchè l'amore attivo a paragone di quello fantastico, è una cosa assai dura e austera. L'amore fantastico brama estrinsecazioni rapide, che vengano presto soddisfatte, e che attragono gli sguardi di tutti. E così si arriva al punto che magari si darebbe la vita purchè non si andasse troppo per le lunghe, e si facesse per le spicce, come in una rappresentazione teatrale: e tutti, intanto, stessero a guardare e a batter le mani. L'amore attivo, invece, è fatica e continenza, e per alcuni addirittura, se si può dire, una scienza vera e propria".

F. Dostoevskij Pag 77 F. Karamazov

giovedì 15 luglio 2010

Cominciavo a sapere

Cominciavo a sapere
(ma soltanto nel modo in cui ignorarlo
è una forma di conoscenza)
che, come anche il silenzio
dev’essere una parte del dire, che come anche
la visione del cielo
è una parte del cielo,
una nube interiore, molto simile
a quella errante e quieta nel mattino
fatta di intrecciata trasparenza,
si eleva alla visione
di quel nulla che siamo, e che è pur tutto.
E la visione umana
arriva a trasformarsi in esperienza
di questo nulla che sta in nessun luogo.
E’ una nube. Soltanto
dopo anni avrei saputo che il suo nome,
fra gli altri nomi esatti che la chiamano
e il nome conseguito da ogni nome,
è la nube chiarissima
del non sapere, nube
che sta dentro l’amore
e la contemplazione. Ed è una nube
oscura e chiara a un tempo,
fatta d’un accecante oscurità.
In questo tempo iniziai a percepire
l’ombra di quella nube,
davanti, molto spesso
precedendo i miei passi,
e seguirla fu a volte
un atto di innocenza.
Era soltanto un’ombra, e percepivo
già il suo potere, in fondo.
E quella nube, quella
ombra del non sapere era un sapere.
(“X Cominciavo a sapere ” /  IL LIBRO, OTRE LA DUNA – Andrés Sánchez Robayna)

Dì tutta la verità ma dilla obliqua

Di’ tutta la verità ma dilla obliqua -
il successo è nel cerchio -
sarebbe troppa luce per la nostra
debole gioia
la superba sorpresa del vero -
Come il lampo è accettato dal bambino
se con dolci parole lo si attenua -
così la verità può gradualmente
illuminare – altrimenti ci accieca -
(Poesia n. 1129  Emily Dickinson)

E' a queste persone che noi penseremo spesso

Mi hai chiesto dirti cosa credo che tu avresti scritto per il tuo amico, ecco:
...dentro di noi sappiamo che: la cosa importante nella vita va oltre il vincere per se stessi. La cosa importante in questa vita è aiutare gli altri a vincere, anche se comporta rallentare e cambiare la nostra corsa. "Una candela non ci perde niente nell'accendere un'altra candela".
Grazie di avermi dato un po' della tua luce...
 (...) Un Guerriero della Luce è colui che è capace di comprendere il miracolo della Vita e di lottare fino alla fine per qualcosa in cui crede. (...)

I VERI AMICI
(di Susan Polis Schutz)
Sono molte le persone
Che incontriamo nelle nostre vite,
Ma sono poche quelle che
Lasceranno un'impronta indelebile
Nelle nostre menti e nei nostri cuori.
E' a queste persone che noi
Penseremo spesso,
Rimarranno sempre
Importanti per noi
Come veri amici.

E se volete conoscere l'Eccelso, non siate solutori di enigmi. Piuttosto guardatevi intorno e lo vedrete giocare con i vostri bambini. Lo vedrete sorridere nei fiori, poi levarsi e agitare le mani nelle cime degli alberi. (K. Gibran)

UNA PREGHIERA (di Max Ehrmann)
Lasciami compiere il mio lavoro ogni giorno; e se le ore buie della disperazione dovessero sopraffarmi, possa ricordare la forza che mi ha sostenuto nella solitudine di altri momenti.
Possa ancora ricordare le splendide ore che mi vedevano camminare leggero sulle quiete colline della mia fanciullezza, o sognare sulla riva di un fiume calmo, quando una luce ardeva dentro me, ed io promisi al Dio della mia giovinezza di avere coraggio tra le tempeste dei tempi nuovi.
Liberami dall’amarezza e dalle passioni effimere dei momenti di debolezza. Possa ricordare che la povertà e le ricchezze sono dello spirito.
Anche se il mondo non mi conosce, possano i miei pensieri e le mie azioni essere tali da farmi rimanere in pace con me stesso.
Solleva i miei occhi dalla terra, e non farmi dimenticare il valore delle stelle. Non permettere che giudichi gli altri per timore di condannare me stesso.
Non lasciarmi seguire il clamore del mondo, ma fammi camminare sereno lungo il mio sentiero.
Dammi degli amici che mi amino per come sono; e conserva sempre accesa dinanzi ai miei passi incerti la dolce luce della speranza.
E anche se l’età o la malattia dovessero sovrastarmi, ed io non riuscissi a vedere realizzati i miei sogni, insegnami ad essere sempre riconoscente per la vita, e per i vecchi ricordi del passato, dolci e piacevoli; e possa il tramonto della sera trovare ancora in me un animo gentile.

Non c'è bisogno che tu esca di casa.

Rimani al tuo tavolo e ascolta.

Non ascoltare neppure, aspetta soltanto.

Non aspettare neppure,

resta in assoluto silenzio e solitudine.

Il mondo verrà ad offrirsi a te

perchè lo smascheri,

non può fare altrimenti,

si voltolerà estasiato ai tuoi piedi.

Kafka

La verità è, non c'è momento migliore per essere felici di quello che stiamo vivendo.

LA FELICITA' E' UN VIAGGIO (da "Midnight Muse" di Crystal Boyd © 1998)

Siamo convinti che la nostra vita sarà migliore quando saremo sposati, avremo un bambino, e poi un altro. Poi ancora ci sentiamo frustrati perché i nostri figli non sono abbastanza grandi e saremo più contenti quando lo diventeranno. In seguito siamo esasperati perché dobbiamo occuparci di adolescenti. Siamo convinti che saremo felici quando avranno superato questa fase della loro vita. Ci diciamo che staremo meglio quando il nostro partner avrà risolto i suoi problemi, avremo un'automobile migliore, potremo fare una bella vacanza, quando andremo in pensione. La verità è, non c'è momento migliore per essere felici di quello che stiamo vivendo. Se non ora, quando? La tua vita sarà sempre piena di sfide. E' meglio accettarlo e decidere di essere comunque felice.

Una delle mie citazioni preferite è di Alfred D. Souza. Egli dice: "Per molto tempo ho avuto l'impressione che la vita stesse per iniziare - la vita vera. Ma c'era sempre qualche ostacolo sulla via, qualcosa che prima bisognava risolvere, qualche affare in sospeso che richiedeva ancora del tempo, o un debito da estinguere. In seguito la vita sarebbe iniziata. Alla fine mi sono reso conto che questi ostacoli erano la mia vita".

Questo modo di percepire le cose mi ha aiutato a capire che non esiste una via che porti alla felicità. La felicità è la via.

Quindi prendi a cuore ogni momento che vivi e valorizzalo di più perché lo hai condiviso con qualcuno speciale, abbastanza speciale da trascorrere del tempo assieme... e ricorda che il tempo non aspetta nessuno. Quindi smetti di... aspettare di finire la scuola, di tornare a scuola, di perdere 5 Kg, di prendere 5 Kg, di avere dei figli, di vedere i tuoi figli andar via di casa, di cominciare a lavorare, di andare in pensione, di sposarti, di divorziare, che arrivi il venerdì sera, la domenica mattina, di avere un'automobile o una casa nuova, di finire di pagare l'automobile o la casa, che giunga la primavera, l'estate, l'autunno, l'inverno, di essere benestante, di arrivare al primo o al quindici del mese, di godere del successo della tua canzone, di bere, di riprenderti da una sbornia, di morire, di nascere nuovamente... per decidere che non c'è tempo migliore che adesso per essere felice.
La felicità è un viaggio, non una meta.
Pensiero del giorno:
"Lavora come se non avessi bisogno di denaro, ama come se non fossi stato mai ferito, e balla come se nessuno ti stesse guardando".

mercoledì 14 luglio 2010

Offendersi a volte è molto piacevole, non è vero?

Dostoevskij- i fratelli karamazov

"La cosa più importante è che non mentiate a voi stesso. Colui che mente a se stesso e dà ascolto alla propria menzogna arriva al punto di non saper distinguere la verità né dentro se stesso, né intorno a sé e, quindi, perde il rispetto per se stesso e per gli altri. Costui, non avendo rispetto per nessuno, cessa di amare e, incapace di amare, per distrarsi e divertirsi si abbandona alle passioni e ai piaceri volgari e nei suoi vizi tocca il fondo della bestialità, e tutto questo a causa dell'incessante menzogna nei confronti degli altri e di se stesso. Colui che mente a se stesso è più suscettibile degli altri all'offesa. Offendersi a volte è molto piacevole, non è vero? Eppure egli sa che nessuno gli ha arrecato offesa, ma che egli stesso si è inventato l'offesa e ha mentito per mettersi in mostra, ha esagerato egli stesso per creare un quadretto pittoresco, ha tratto spunto da una parola e ha fatto di un sassolino una montagna: egli sa benissimo tutto questo, tuttavia è il primo a offendersi, a offendersi per provare piacere, per assaporare una grande soddisfazione, e così finisce per nutrire autentico rancore..."

E tu non consolarti, non occorre che tu ti consoli, piangi pure... ma ricordati...

Di fronte al dolore di una morte improvvisa non si sa cosa dire, soprattutto quando le parole risultano un arrogante tentativo di negare il fatto e di conseguenza  impedire la manifestazione del dolore.
Anche in questa pagina di Dostoevskij il tentativo dello starec è visto distante dalla donna che ha perso il figlio.
Riporto da pag 67dei fratelli Karamazov ed Einaudi.
La donna lo ascoltava con la guancia appoggiata alla mano e con gli occhi bassi. Sospirò profondamente.
– Anche Nikìtuska, per consolarmi, mi parlava proprio come te. «Non sei ragionevole» mi diceva. «Perché piangi? Il nostro bambinello è vicino al Signore Iddio e canta insieme con gli altri angeli». Mi dice così, ma piange anche lui; lo vedo che piange come me. «Lo so, Nikìtuska», dico io, «dove potrebbe essere se non accanto al Signore Iddio?… ma qui con noi ora non c’è più, Nikìtuska, non è più seduto qui vicino a noi come prima…». Se lo vedessi solo una volta, se potessi rivederlo una volta ancora! Non mi avvicinerei, non gli direi neppure una parola, mi nasconderei in un angolo pur di vederlo un attimo, pur di sentirlo giocare nel cortile e poi venire, come una volta, gridando con la sua vocetta: «Mammina, dove sei?» Potessi solo una volta, una volta sola sentirlo camminare nella stanza con i suoi piedini che facevano toc toc!… Mi ricordo che quasi sempre correva da me gridando e ridendo! Potessi solo sentire i suoi piedini, sentirli, riconoscerli! Ma lui non c’è più, bàtjuska, non c’è più e non lo sentirò mai più! Ecco qui la sua cinturina, ma lui non c’è più e io non potrò mai più né vederlo né sentirlo!
Essa cavò dal seno la piccola cintura di passamano del suo bimbetto e, al solo vederla, fu scossa dai singhiozzi e si coprì il volto con le dita attraverso le quali colarono rivi di lacrime.
– Questa – disse lo starec – questa è l’antica «Rachele che piange i suoi figli e non può consolarsi perché essi non sono più»; tale è la sorte assegnata sulla terra a voi madri. E tu non consolarti, non occorre che tu ti consoli, piangi pure; ma, ogni volta che piangi, ricordati che il tuo bambino è uno degli angeli di Dio, che di là ti guarda e ti vede, gioisce delle tue lacrime e le indica al Signore Iddio. E ancora a lungo durerà questo tuo sublime pianto di madre, ma alla fine si trasformerà in una quieta gioia, e le tue amare lacrime non saranno più che lacrime di dolce tenerezza e di purificazione del cuore che laveranno la tua anima dal peccato. Io pregherò per la pace del tuo bambino: come si chiamava?

Mi ha bagnato i piedi con le lacrime
Per questo ti dico:
le sono perdonati i suoi molti peccati
perché molto ha amato.  
È difficile parlare delle lacrime. Non sono forse il segno della mancanza della parola? Quando la lingua è incapace di esprimersi, lo fa il cuore e gli occhi parlano con le lacrime.
Chi può interpretare questo linguaggio dove i sentimenti sono tutti mescolati in un sol gusto! E’ una lingua che parla tutte le lingue! Una lingua dell'anima che riversa la sovrabbondanza dei suoi sentimenti più sinceri!
Le lacrime sono la consolazione dell'oppresso, la patria dello straniero, i genitori dell'orfano, il riposo di coloro che sono spossati, l'espiazione degli errori, il segno del pentimento, il pe­gno della conversione. Lavano il cuore, purificano le membra, guariscono l'anima malata. Sono il linguaggio dello spirito, la preghiera del silenzioso, il disprezzo del mondo, la tenera no­stalgia del cielo, l'attesa della morte.
E se le lacrime possono suscitare l’ironia di cuori incatenati dalla durezza, quando incontrano cuori misericordiosi, li fanno letteralmente fondere.
Ma quale titolo di gloria più grande per le lacrime che entrare al cospetto dell'Onnipotente e intrattenersi con lui? "Ho udito la tua preghiera e visto le tue lacrime" (2Re 20,5).
Anche se cadono a terra come cose disprezzabili, esse ven­gono raccolte nell'otre di Dio: "Raccogli le mie lacrime in un vaso" (Sal 56,9).
E se non commuovono i cuori duri, fanno tremare la soglia dei cieli; "Mentre io stavo ancora parlando e pregavo e confessavo il mio peccato... e presentavo la supplica al Signore Dio mio… Mentre dunque parlavo e pregavo, Gabriele, che io avevo visto prima in visione, volò veloce verso di me .. Egli mi rivolse questo discorso: ‘Daniele, sono venuto per istruirti e farti com­prendere. Fin dall'inizio delle tue suppliche è uscita una parola e io sono venuto per annunziartela’” (Dn 9,20-23).
Anche se non possono intenerire la durezza dei capi, esse pos­sono guadagnare la tenerezza di Dio: "Distogli da me i tuoi occhi: il loro sguardo mi turba" (Ct 6,5).
Oh lacrime! Come sembrate disprezzabili agli occhi dei saggi e dei sapienti che hanno fatto di voi il segno della debolezza e del cedimento della personalità! Ma, invece, come è grande la vostra gloria, dal momento che il Signore stesso ha detto beati gli occhi che di voi si riempiono: "Beati quelli che piangono" (Le 6,21).
Giovanni Climaco, narrandoci la propria esperienza delle la­crime, dice: "Esse sono madre e figlia della preghiera". Ed è vero. Le lacrime spingono a ritirarsi nella propria camera per la preghiera e là, fonti vive delle lacrime ci sono offerte, affinché possiamo attingervi a volontà: "Chi farà del mio capo una fonte di acqua, dei miei occhi una sorgente di lacrime, perché pianga giorno e notte?" (Ger 8,23).

Confessione
(Hoda Ablan n. a Eb, Yemen nel 1971)

Talvolta, la sera, scoppio a piangere
poi mi adiro per le mie lacrime,
       che hanno illuminato il mondo e consumato me.

martedì 13 luglio 2010

John Chryssavgis
SOLITUDINE, SILENZIO E QUIETE
I tre stadi della vita solitaria
La conoscenza di sé è invece il cuore della solitudine, la base del silenzio e il centro della quiete.
La profondità della solitudine, del silenzio e della quiete è determinata da norme specifiche e da regole spirituali: Barsanufio e Giovanni propongono vie pratiche e semplici: 
stare seduti in cella, 
praticare il silenzio, 
cercare la quiete.
Nella casa dell'anima, poi, 
la qualità fondamentale della soli­tudine è l'attenzione o la vigilanza
la qualità essenziale del silen­zio è l'ascolto o l'obbedienza
e la qualità essenziale della quiete è la comunione o l'amore.
 
Fratello, odia perfettamente per amare perfettamente; 
allontanati perfettamente, per avvicinarti perfettamente; 
aborrisci l'adozione, per ricevere l'adozione (cf. Gal 4,5); 
rinuncia a fare la tua volontà, e fa' la volontà di Dio; 
taglia te stesso e lega te stesso; 
fa' morire te stesso e fa' vivere te stesso (cf. 1Pt 3,18); 
dimentica te stesso, e conosci te stesso. 
Ed ecco che hai le opere del monaco.
Quanto al silenzio di cui parlano i padri, tu non sai che cos’é, e sono molti a non saperlo. 
Questo silenzio infatti non è tacere con la bocca: ci può essere un uomo che dice migliaia di parole utili, e questo gli viene contato come silenzio; 
e un altro che dice una sola parola inutile, e gli viene contata come trasgressione degli insegnamenti del Salvatore.
La solitudine e il silenzio sfociano infine nel mistero della quiete. Questo è il momento in cui percepiamo che Dio è il fondamento del nostro essere.
  “La cella nella quale uno è sepolto come in una tomba, per il nome di Gesù, è un luogo di riposo ... 
è di­ventata un santuario, dato che contiene la dimora di Dio (cf. Ef 2,22).

La via dell'anima
Barsanufio e Giovanni tracciano una distinzione tra solitudi­ne, silenzio e quiete. Sebbene gli Anziani di Gaza non siano sempre precisi nella distinzione da essi delineata, sottolineano tuttavia come sia importante dedicare del tempo a esaminare i diversi aspetti dell'anima e i principi particolari che la governano. Nel nostro tempo in cui vigono una comunicazione istanta­nea e un apprezzamento immediato dei desideri, sembra che di noi stessi e delle motivazioni che si celano dietro le nostre azioni conosciamo meno che di ogni altro argomento. La conoscenza di sé è invece il cuore della solitudine, la base del silenzio e il centro della quiete.
In un qualche momento del lungo cammino che conduce dall'infanzia alla maturità, molti di noi hanno perso il contatto con le facoltà vitali che ci permettono di conoscere noi stessi. Forse parte del problema è dovuto al fatto che ci siamo propo­sti traguardi impossibili, che possono essere raggiunti soltanto dagli angeli. La spiritualità del deserto insegnò agli anziani di. Gaza che la perfezione appartiene soltanto a Dio; noi non siamo chiamati a rinunciare alla nostra imperfezione o a dimenticarla. La stessa fragilità e vulnerabilità della vita rivela la primaria im­portanza di affrontare e accettare i nostri desideri interiori e le nostre personali debolezze. La verità è che la presenza di Dio si può discernere al cuore di queste tensioni e di queste prove.
Barsanufio e Giovanni certamente comprendono le vie dell'anima e le seduzioni della tentazione. Essi hanno piena coscienza del fatto che se non compiamo la scelta radicale di rinun­ciare ai legami e al modo di pensare che ci è familiare, attraverso un atto di xeniteìa - per mezzo del quale entriamo nel territorio straniero e impariamo a parlare l'estraneo linguaggio della so­litudine - non possiamo cominciare ad articolare il linguaggio dell'anima. Gli Anziani di Gaza erano perciò consapevoli che, sebbene ci siano tante vie di conoscenza di sé quanti sono gli esseri umani, le differenze tra di noi sono di fatto molto lievi. Ancor più, essi riconoscono che la profondità della solitudine, del silenzio e della quiete è determinata da norme specifiche e da regole spirituali. Spesso le nostre vite sono complicate da re­gole e norme; siamo angosciati o spaventati dall'idea di restare soli, incapaci di ascoltare, poco propensi ad amare. Barsanufio e Giovanni propongono vie pratiche e semplici: stare seduti in cella, praticare il silenzio, cercare la quiete. La vita spirituale è una via per spezzare cattive abitudini e stabilirne di nuove al loro posto: "Per chi siede in cella, recidere la volontà è disprez­zare il sollievo della carne in tutto"
E Barsanufio adotta l'immagine della costruzione di una casa per descrivere la dura lotta e lo sforzo continuo  richiesti dalla pratica del silenzio e della quiete:
Se vuoi costruire la tua casa, dapprima prepara il materiale e tutto l'occorrente: spetta quindi all'operaio venire e co­struire. L'occorrente per la costruzione di un tale edificio consiste in una fede salda (cf. 1Pt 5,9) per costruire le mura, luminose finestre di legno che lascino entrare la luce del sole per illuminare la casa, affinché non sia trovata in essa alcuna tenebra (cf. 1Gv 15). Le finestre di legno sono i cinque sensi [spirituali], rafforzati dalla croce preziosa del Cristo, che introducono la luce del sole spirituale di giustizia (cf. Ml 3,20) e non permettono che appaia nella casa alcuna tenebra, intendo dire la tenebra del nemico e di colui che odia il bene. Poi ti occorre un tetto che ripari la casa, affinché di giorno non ti bruci il sole né la luna di notte (Sal 120 [1211,6). Il tetto indica l'amore verso Dio, che non viene mai meno (cf. 1Cor 13,8) e protegge la casa e non lascia che il sole tramonti sulla nostra ira (cf. Ef 4,26), affinché non lo troviamo nel giorno del giudizio (Mt 10,15) come accusatore che ci brucia nel fuoco della geenna (cf. Mt 5,22) e non troviamo la luna ad attestare la rilassatezza e l'indolenza delle nostre notti. Questa casa deve poi avere una porta, che lascia entrare e custodisce chi rimane dentro. Quando dico “porta”, tu, fratello, pen­sa come porta spirituale al Figlio di Dio che dice: Io sono la porta (Gv 10,9).
Nella casa dell'anima, poi, la qualità fondamentale della soli­tudine è l'attenzione o la vigilanza; la qualità essenziale del silen­zio è l'ascolto o l'obbedienza, e la qualità essenziale della quiete è la comunione o l'amore. Non c'è obbedienza senza vigilanza e non vi può essere comunione senza solitudine. Quando queste tre qualità coesistono, la lotta ascetica ci consente di scoprire l'anima profonda e di prendere con noi la nostra anima ovun­que andiamo: "E se giungerai a praticare la quiete, troverai ri­poso e grazia dovunque tu viva questa quiete”.
La solitudine: la porta dell'anima
 
La solitudine è ciò che ci accorda il tempo e lo spazio per di­ventare attenti agli altri e a noi stessi. È un prerequisito nella via del progresso spirituale. In risposta a un tale che gli chiedeva preghiere, Barsanufio scrive: "Fratello, non costringermi a par­lare poiché io desidero abbracciare quiete e silenzio ".
E con un monaco che gli chiedeva se doveva accettare de­naro per nutrire i poveri, abba Giovanni è parimenti radicale, apparentemente privo di carità: devi evitarlo a tutti i costi "an­che se tu vedessi davanti alla tua cella un uomo strangolato". Ambedue gli Anziani avvertono con quanta facilità la carità e il servizio sono utilizzati come giustificazione per sfuggire al la­voro interiore di conversione. Riconoscono che perfino la pre­ghiera può diventare un pretesto per evitare il difficile lavoro della solitudine e del silenzio. E’ per questo motivo che abba Giovanni stabilisce: “Trattandosi di elemosina, non tutti sono in grado di comprendere l'argomento, ma solo quelli che hanno raggiunto la quiete e l'afflizione per i propri peccati”.
Barsanufio spiega in che cosa anzitutto consista la solitudi­ne: "Entrare nella cella significa entrare nella cella dell'anima ed esaminarla e raccogliere il nostro pensiero distaccandolo da ogni uomo". E Giovanni aggiunge: "Stare in cella è ricordar­si dei propri peccati e piangerli e affliggersi (cf. Gc 4,9); vigilare perché la mente non sia fatta prigioniera. Ma, se lo fosse, ricon­durla in fretta nel suo luogo”.
Purtroppo, tuttavia, noi tendiamo a confondere la conoscen­za di sé con il ripiegamento su se stessi. Ma in realtà la conoscenza di sé ci conduce dal ripiegamento su di sé all'oblio di se stessi:
 
Fratello, odia perfettamente per amare perfettamente; allontanati perfettamente, per avvicinarti perfettamente; aborrisci l'adozione, per ricevere l'adozione (cf. Gal 4,5); rinuncia a fare la tua volontà, e fa' la volontà di Dio; taglia te stesso e lega te stesso; fa' morire te stesso e fa' vivere te stesso (cf. 1Pt 3,18); dimentica te stesso, e conosci te stesso. Ed ecco che hai le opere del monaco.
 
Curiosamente, mentre promuoviamo la necessità di conosce­re e amare gli altri, in cambio tralasciamo spesso di conoscere noi stessi nella solitudine. Barsanufio ripete la ferma convinzio­ne di abba Alonio: “Io e Dio siamo soli al mondo”. Barsanufio afferma: "Che tu sia solo e ti affatichi un pò, ti giova più che avere un altro". Davvero, non siamo mai meno soli di quan­do siamo soli: "Mentre lottate in questa lotta non siete soli, ma anche molti altri lottano insieme a voi con le loro preghiere (cf. Col 4,12)".
Essere consapevoli delle ragioni per cui facciamo quello che facciamo facilita la consapevolezza delle ragioni per cui gli altri fanno quello che fanno e infine l'accettazione degli altri per quello che sono. Il narcisismo non è tanto conoscenza di sé, quanto piuttosto insufficiente conoscenza del vero io. Le per­sone ripiegate su se stesse e centrate su di sé normalmente soffrono per un io troppo piccolo piuttosto che per un io troppo grande.
Spesso cerchiamo la comunione in una direzione sbagliata. Invece di guardare dentro di noi, ci volgiamo fuori di noi, ver­so gli altri. Per questa via il movimento di separazione della so­litudine non diventa affatto il primo passo verso la comunione con gli altri: "Fratello, scruta il tuo cuore da solo nella tua cella e troverai donde ti è venuta la durezza del tuo cuore".
La comunione si sviluppa a partire dall'interno e riflette il mondo interiore dell'anima. Essa costituisce il solido fonda­mento a partire dal quale possiamo raggiungere gli altri, per­fino Dio stesso. Dice un detto apocrifo attribuito a Gesù nel Vangelo di Tommaso:
 
Quando di due farete uno,
allorché farete la parte interna come l'esterna,
la parte esterna come l’interna
e la parte superiore come l'inferiore
allora entrerete nel Regno.
 
La solitudine allora è ciò che dona stabilità. È come una bus­sola segreta nella nostra relazione con Dio, con gli altri e con noi stessi. Ci mette in grado di distinguere tra coinvolgimento personale e desiderio di piacere agli altri (anthroparéskeia) che deve essere rigorosamente confessata. La solitudine conduce al silenzio, che altro non è «se non chiudere il proprio cuore al dare e al ricevere (cf. Fil 4,15), al cercare di piacere agli uomini, e a ogni altra attività».
La solitudine concerne la dimensione dell'essere e non sem­plicemente quella del fare. Essa rende l'anima attenta e recetti­va, disposta semplicemente a chiedere e attendere umilmente: "Se non ti scoraggi per la fatica, troverai l'umiltà; e se troverai l'umiltà, riceverai anche il perdono dei peccati... Se ti lasci umi­liare, riceverai la grazia e la grazia ti aiuterà".
Barsanufio e Giovanni affermano chiaramente che la pre­ghiera non è mai esaudita per le vie che ci attendiamo: "Dio regolerà la cosa in un modo che non conosci". In realtà la pre­ghiera è esaudita per vie che trascendono - e forse addirittura annientano - una fiducia in se stessi che cerca risultati imme­diati o mete prestabilite. Allora la solitudine non può essere identificata con l'egoismo; la solitudine dissolve l'autoreferenzialità, conduce a considerarsi un nulla, a ciò che Barsanufio e Giovanni chiamano apséphiston:
 
Sii libero da ogni sollecitudine e allora sarai completamente libero per Dio; muori ad ogni uomo; questo è il vivere da stranieri; tieni alla disistima di te stesso e troverai il tuo pensiero imperturbato.
 
Barsanufio e Giovanni si muovono costantemente sul filo del rasoio tra l'importuno demone della vanagloria da un lato e il tenebroso abisso della disperazione:
 
Fratello, quanto più l'uomo sprofonda nell'umiltà, tanto più progredisce. Rimanere nella tua cella ti è inutile, perché così tu resti senza afflizione; e se sei senza sollecitudine prima del tempo, il nemico ti prepara un turbamento maggiore - della quiete in cui credi di essere, così da condurti a dire: Magari non fossi mai nato (Gb 3,3; Ger 20,14).
 
Spesso è raccomandato l'equilibrio: «Non camminare né dentro, né fuori, ma nel mezzo delle due cose, comprendendo qual è la volontà del Signore". E ancora: "Il non presumere ri­guardo al ritiro, né disprezzare la distrazione degli affari, questa è la via di mezzo".
Il progresso nella via dell'anima richiede però fatica e tempo. Non cambiamo all'improvviso, divenendo in modo magico per­sone nuove e dimenticando tutte le nostre colpe passate. Non possiamo mai fuggire da ciò che siamo; non possiamo mai sfug­gire alle tentazioni e alle passioni, al nostro carattere, alla vanità, alla paura, all'invidia, alla delusione o all'arroganza. Barsanufio ci ammonisce a non entrare in cella “a motivo della viltà”, ma solo “a motivo della preghiera”. Giovanni aggiunge: “Quando ricorri al silenzio per ascesi, allora è buono; quando invece non è così ma taci temendo il turbamento, allora è dannoso”.
In ultima analisi, il grado di comprensione e accettazione dell'altro sarà proporzionato al grado di comprensione e tol­leranza di noi stessi. Siamo uniti l'uno all'altro più dalla nostra debolezza e dai nostri fallimenti che dalla nostra forza e dai no­stri successi.
Nella solitudine della cella, attraverso tentazioni e tensioni, l'asceta diventa dolorosamente cosciente di ciò che gli manca. Allora l'asceta è tormentato dall'assenza di amore e aspira a una comunione profonda. La cella simbolizza il porto sicuro dell'anima, che nessuno lascia e al quale ciascuno può sempre vo­lontariamente fare ritorno per scoprire sempre di più l'io pro­fondo, senza temere la prova dolorosa o la lotta fino al sangue che ciò può portare con sé. Tale scoperta attraverso la solitudi­ne può diventare una fonte di salvezza. Abbracciare la solitudi­ne nel deserto della cella o dell'anima significa conoscere che cosa pensi, capire come stai e infine accettare gli altri senza il bisogno di difendere te stesso. Significa ancora diventare re­sponsabile senza la minima ombra di autogiustificazione. Ciò è fonte di vulnerabilità e di apertura.
In questo senso, cioè come fonte di vulnerabilità, la solitudi­ne ci mette in rapporto con la croce di Cristo. Giovanni scrive: "Allora sarà solitudine, perché ha portato la croce". Chi è sta­to spinto - da sofferenze personali o da condizioni di vita difficili - a un "punto di rottura" possiede spesso una visione della realtà estremamente ricca, che appare molto meno in chi non ha conosciuto conflitti. In verità la realtà del conflitto come par­te costante e cruciale della vita è difficile da accettare. Il modo in cui noi viviamo le tensioni e le difficoltà influenza il nostro modo di accettare noi stessi e gli altri.
La solitudine ci ricorda che l'anima non è una regione libe­ra da conflitti dove possiamo evadere o ignorare i pericoli del mondo e le tentazioni dell'anima:
 
Entrare nella cella significa entrare nella cella dell'anima ed esaminarla e raccogliere il nostro pensiero distaccandolo da ogni uomo: allora sentiamo dolore e compunzione. Ciò che impedisce la compunzione è la tua volontà propria; se infatti l'uomo non taglia la sua volontà, il cuore non sente dolore.
 
La solitudine, insomma, possiede la capacità di assorbire ogni sorta di dolore e di trasformare ogni genere di tentazione e di tensione in speranza e gioia: “La tentazione porta l'uomo a pro­gredire; dove c'è il bene, là scoppia la lotta. Non temere dunque le tentazioni ma gioisci, poiché ti portano a progredire”.
Non c'è da meravigliarsi che gli Anziani di Gaza ripetano in­sistentemente la necessità di gioire nel Signore:
 
Gioisci nel Signore; gioisci nel Signore; gioisci nel Signore! Il Signore custodirà la tua vita, il tuo corpo, il tuo spirito da ogni male, da ogni attacco diabolico, da ogni fantasia angosciosa
 
E ancora:
 
Non possiamo essere senza tentazioni. D'altra parte esse ci insegnano la pazienza ... Il nostro Maestro ha sopportato ogni patimento per amor nostro; e come mai noi, ricordan­doci di lui, non sopportiamo, per divenire suoi compartecipi (cf. 1Cor 9,23)? Guarda che noi abbiamo ricevuto il coman­damento di rendere grazie in tutto (cf. 1Ts 5,18).
 
È qui che la solitudine incontra il servizio agli altri e la cella si apre al mondo intero: "Per raccogliere il proprio spirito non ci sono momenti fissi, né ore, né tanto meno giorni; si deve in­vece sopportare, con rendimento di grazie ... Questa è la compassione".
 
 
Il silenzio: la via dell'anima
 
Se la solitudine ci fa dono della consapevolezza e della vi­gilanza, il silenzio ci educa all'arte dell'ascolto e dell'attenzio­ne. Nella solitudine è importante lo spazio tra le persone; nel silenzio quello tra le parole. Questo spazio è sempre necessa­rio; "il silenzio è più ammirabile e più glorioso", è sempre mi­gliore, "bello e meraviglioso più di ogni altra cosa", "bello in ogni caso", "più necessario e utile di ogni altra cosa". Il contatto fisico e la comunicazione verbale sono unite alla co­munione e all'amore quanto il silenzio. È questo il motivo per cui Barsanufio afferma che il silenzio ci è chiesto da Dio; non dirà mai questo della quiete, che è un dono. La solitudine of­fre lo spazio e la possibilità di ascoltare e di assumere quello che l'altro sta dicendo e comunicando. Questo avviene perché nella relazione noi portiamo quello stesso io con cui noi siamo o non siamo in rapporto quando restiamo soli. Gli Anziani infatti rim­proverano severamente quelli che si lamentano di aver perduto, nell'incontrare i fratelli, i doni spirituali conseguiti nella solitu­dine, come ad esempio, il silenzio.
Il silenzio è una qualità che ci porta ad avere coscienza che ciò che sta accadendo nel mondo degli altri è importante. Al contrario, il canale di congiunzione tra l"'io" e il "tu" può ac­crescere la "consapevolezza" della forza dei miei desideri e dei miei pregiudizi, nella mia mente e nel mio cuore. Quale risulta­to, io creo la mia versione del "tu", con infima o nulla possibi­lità di contatto o comunicazione con l'altro.
 
Domanda. Mi accade, mentre mi intrattengo con qualcuno, di distrarmi improvvisamente, al punto sia di sembrare al di là di me, sia di dimenticare l'argomento in corso, non per­ché la mente sia trasportata verso qualcos'altro, ma perché è fuori di se...
Risposta. Questa è una guerra del diavolo, che vuole con­fondere l'uomo davanti ai presenti. Ma se manifesti loro la cosa con libertà, dicendo: "Perdonatemi, il diavolo mi ha distratto", è lui a restare confuso e la guerra cessa. Parla dunque con sobrietà.
 
Questi anziani riconoscono che dove l'io è impoverito, anche la relazione è compromessa.
Ora, Barsanufio e Giovanni sono ben consci che per giungere alla conoscenza di sé abbiamo bisogno di fidarci almeno di un'altra persona:
 
Domanda del medesimo allo stesso. Ti prego, padre, di dirmi come posso sapere se sono nella sottomissione e se abban­dono la mia volontà...
Risposta. Da questo puoi sapere se vivi da cenobita: se non fai niente di tua volontà, né il mangiare da solo, né con i fratelli, ma se fai senza discutere le cose che ti vengono ordinate.
Domanda dello stesso. Quando faccio una carità ai fratelli, mi viene la tentazione di vantarmene; è male se lo faccio di nascosto per mezzo dell'igumeno, piuttosto che persona]­mente? ...
Risposta. Tu devi fare attenzione in tutti e due i casi, perché entrambi offrono un'occasione alla vanagloria. Tuttavia, farlo per mezzo dell'igumeno è più leggero, perché il tuo cuore ci trova una sola occasione di lotta: contro se stesso. Se invece lo fai direttamente, il combattimento è duplice: non solo con il tuo cuore, ma anche con gli uomini.
 
L'obbedienza è essenzialmente un atto di attento ascolto; è l'arte di ascoltare profondamente (hypakoé). Barsanufio è cer­to che ogni volta che si fa silenzio di propria iniziativa, quel si­lenzio viene dal diavolo e produce turbamenti e ire. Insomma, l'ammonimento fondamentale è una sorta di reminiscenza dell'educazione ricevuta in una buona scuola elementare: “Non parlare mai prima di essere interrogato”. Ma lo scopo che ci si prefigge non è quello di soffocare o reprimere la volontà, bensì di rafforzare e rinsaldare la volontà: “Non esaltarti se il tuo di­scorso è accettato, né affliggerti se non lo è”.
L'obbedienza è la misura e il criterio dell'autentica solitudine e del silenzio: "Se vuoi sapere se è dannoso o vantaggioso stare in cella per conto proprio, considera questo segno: se ci stai per obbedienza, sappi che è vantaggioso ".
Naturalmente il delicato equilibrio tra solitudine e comunio­ne non può essere veramente raggiunto senza la grazia divina. Il vero silenzio e la vera quiete sono un riflesso della quiete che esiste nella santa Trinità:
 
Se hai preparato così la tua casa [nel silenzio] ... ecco che [il Figlio di Dio] viene col Padre benedetto e con lo Spirito santo e pone la sua dimora presso di te (cf. Gv 14,23) e ti insegna cos'è la quiete e illumina il tuo cuore (cf. Ef 1,18) di gioia ineffabile (cf. 1Pt 1,8)
 
Ma ancora, è difficile reggere il sottile equilibrio tra solitu­dine e comunione senza l'aiuto di un padre spirituale. Grazie a qualcun altro che ha fiducia in noi, cominciamo fiduciosamen­te - cioè attraverso la fiducia e l'apertura del cuore - a riscoprire il solido terreno interiore. Condividere apertamente i nostri pensieri e le nostre tentazioni con almeno un'altra persona, ci porta a conoscere i desideri e i conflitti che guidano il nostro comportamento. E l'essere preparati ad ascoltare e ad accettare la realtà della nostra natura e noi stessi, ci rende più consapevoli e più attenti agli altri. La nostra capacità di entrare in noi stessi per imparare e crescere è in definitiva anche la possibilità che noi abbiamo di diventare consapevoli della presenza degli altri e attenti ai pesi degli altri.
Una ragione valida per condividere con gli altri i propri pen­sieri è che la maggior parte di noi sono critici severi verso se stessi; noi ci ergiamo contro noi stessi con durezza, proprio quando più avremmo bisogno di tolleranza e di compassione, virtù proprie degli Anziani di Gaza. E benché l'obbedienza sia un concetto in contrasto con le contemporanee nozioni di libe­razione e di indipendenza, è vero che quando si è incapaci di costruire anche un piccolo pezzetto di terreno solido, termini come libertà e volontà hanno scarsa risonanza.
Citando frequentemente Gal 6,2 – “Portate i pesi gli uni degli altri” - Barsanufio e Giovanni sottolineano che la responsabilità per “i pesi degli altri” è un punto critico per la crescita spirituale. Assumere e riconoscere la propria responsabilità di­nanzi agli effetti dei pensieri e delle azioni implica rinunciare ad accusare gli altri, che di conseguenza divengono meno minac­ciosi per noi:
 
Il medesimo aveva letto nei detti dei padri che colui che vuole davvero essere salvato, deve anzitutto, vivendo in­sieme agli uomini, sopportare oltraggi, ingiurie, danni, disprezzo, perché i suoi sensi siano liberati e così si in­nalzi alla quiete perfetta ... Disse dunque a se stesso: "Io miserabile non ho fatto nemmeno una di queste cose ma, scandalizzando tutti a motivo della mia infermità, mi sono separato dagli uomini. Devo forse allora ritornare in mezzo agli uomini? E, con l'aiuto di Dio, fare come dicono i padri e così giungere alla quiete perché la mia fatica non sia vana (cf. 1Ts 3,5)
 
Il silenzio poi è l'alfabeto del linguaggio della tolleranza e dell'amore. La comunione è spesso travolta sotto il rullo compressore delle nostre parole! Barsanufio preferisce il silenzio; Giovanni invece confessa di amare la conversazione: "Se la persona che mi interroga fosse come me, la mia loquacità non mi lascerebbe star zitto senza rispondergli, perché la mia lin­gua non si lascia trattenere". E afferma: "Poiché noi, per la nostra debolezza, non siamo giunti a percorrere la via dei perfetti, parliamo"
Dopo tutto, come osserva a un certo punto:
 
Quanto al silenzio di cui parlano i padri, tu non sai che cos’é, e sono molti a non saperlo. Questo silenzio infatti non è tacere con la bocca: ci può essere un uomo che dice migliaia di parole utili, e questo gli viene contato come silenzio; e un altro che dice una sola parola inutile, e gli viene contata come trasgressione degli insegnamenti del Salvatore.
 
Questo equilibrio tra solitudine e comunione caratterizza il monastero di Serido. Le celle avevano finestre che permettevano la conversazione con i visitatori; e i monaci erano incorag­giati a rispondere ai bisogni degli ospiti, inclusi i laici e i paren­ti, “non per compiacere gli uomini, né come chi cerca lode, ma con cuore puro” (cf. 1Tm 1,5)
Infine abba Giovanni parla di "non-silenzio" ( asiòpeton o tò mé siopàn) quando uno è si silenzioso, però non manifesta sinceramente i suoi pensieri e perciò non ottiene la guarigio­ne. Ambedue, parola e silenzio, possono essere falsi. Quando la nostra teologia è disgiunta dagli altri, quando essa non ha re­lazione con questo mondo, allora è un falso linguaggio, è catti­va comunicazione. Barsanufio e Giovanni sono poco tolleranti verso le chiacchiere spirituali che riducono Dio a un oggetto piccolo e maneggevole. Non ci offrono un libro di ricette per la nostra guarigione e salvezza, per quanto seducente possa esse­re il "rattoppo". Barsanufio e Giovanni sanno che l'essere uma­no è imprevedibile; è troppo complesso perché un tale proce­dimento possa portare benefici duraturi. Più diventa possibile fare previsioni su qualcuno, meno tale persona è reale. Stiamo in guardia dalle persone che hanno sempre la risposta pronta!
 
 
La quiete: la risurrezione dell'anima
 
La solitudine e il silenzio sfociano infine nel mistero della quiete. Questo è il momento in cui percepiamo che Dio è il fondamento del nostro essere, “la solida pietra” della nostra co­struzione, davanti alla quale non siamo più spaventati della no­stra debolezza o della nostra piccolezza. Abba Giovanni dice: “Dove c'è quiete, mitezza e umiltà, abita Dio”. E Barsanufio afferma che la quiete è un dono spirituale, dato da Dio “nei tempi opportuni”
La quiete è strettamente legata alla morte. Essa riflette la nostra attesa del mondo a venire. Sii vigilante, ammonisce Barsanufio: “vigila, fratello: sei mortale e sono brevi i tuoi gior­ni”. Dice ancora: “La cella nella quale uno è sepolto come in una tomba, per il nome di Gesù, è un luogo di riposo ... è di­ventata un santuario, dato che contiene la dimora di Dio (cf. Ef 2,22)
La quiete può in certo senso rassomigliare alla morte, è simile alla lenta crescita silenziosa di germogli seminati profondamen­te nel terreno: crescita nascosta, ma reale. Barsanufio paragona "la quiete perfetta" a una nave che giunge nel porto; dappri­ma essa "è sbattuta e agitata dalle onde e dai flutti; ma quando giunge nel porto, si trova in una grande calma".
Si vive la vita in pienezza solo quando ci si è posti di fronte alle cose ultime, cioè alla mancanza di senso e alla morte. Dal modo con cui noi ci confrontiamo e ci sottraiamo a queste cose ultime, derivano profonde conseguenze per la nostra esperien­za di solitudine, di silenzio e di quiete. Il ricordo della morte è fondamentale nella vita spirituale, è una memoria quotidiana e tangibile della nostra debolezza e imperfezione. Se vogliamo uscire dalla vita nella bellezza e nella luce, dobbiamo semplice­mente pensare alla morte. A fatica si può trovare, in case di cura e ospedali, un senso di perfezione, che per giunta è solo appa­rente. Il ricordo della morte permette alla debolezza di essere rivelata in verità; allora la falsità può essere apertamente svelata e la guarigione può cominciare.
La quiete tuttavia non è soltanto qualcosa che fa paura; è an­che qualcosa di sacro. La quiete è strettamente legata al desiderio della “vita in abbondanza” (cf. Gv 10,10), al di là della "mera sopravvivenza". La maggior parte di noi tende a negare la relazione tra la morte e la quiete entrando nel turbine dell'at­tivismo che fa della morte una realtà improbabile o forse impos­sibile. La quiete è come un'attesa rispettosa e riverente. Essa e un rinnovato senso di anticipazione, un'apertura alla risurrezio­ne in cielo. Nella quiete siamo consapevoli di essere vivi e non morti, di avere bisogni e tentazioni e di essere capaci di affron­tarli e di assumerli senza fuggire. Nella quiete non siamo vuoti, non siamo soli, non siamo timorosi. Nella quiete sappiamo che Dio è (cf. Sal 45 [46],11); quest'esperienza può accadere in un istante oppure occupare tutta una vita.
Infine la quiete introduce un elemento apofatico nella via della comunione e dell'amore. Perché attraverso la quiete giun­ge il consolante invito ad avvicinare gli altri tramite la "non-co­noscenza". Se restiamo fermi alle nostre precomprensioni o alle nostre paure dell'altro, non potremo mai godere di un perfetto silenzio. Quando "conosciamo" qualcuno, finiamo per chiudere subito gli occhi al processo continuo di cambiamento e di crescita dell'altro. Noi limitiamo noi stessi quando fissiamo gli altri unicamente nel passato e non sappiamo gioire della loro potenzialità. Nell'isolamento della solitudine possiamo rischiare di essere quello che siamo; nell'eco prodotta dal silenzio pos­siamo rischiare di porci davanti agli altri come essi sono; e nella comunione della quiete possiamo accogliere gli altri nella loro interezza, nella loro dimensione eterna, al di là di quello che possiamo comprendere, sopportare o semplicemente sfruttare.
 
 
Conclusione
 
Secondo una leggenda conservata nella Storia ecclesiasti­ca di Evagrio Scolastico, al tempo in cui Evagrio scrive (593 ca.) circa cinquant'anni dopo la data presunta della morte di Barsanufio, si credeva che il Grande anziano fosse ancora vivo. Quando il patriarca di Gerusalemme diede ordine di aprire la porta della sua cella, ne uscì una fiamma di fuoco. Il silenzio di Barsanufio fu una dimostrazione più forte della sua stessa morte.
Solitudine, silenzio e quiete sono valori monastici che pre­sentano sottili, ma significative, variazioni dell'anima. Per molti aspetti esse costituiscono un equivalente della triplice distinzio­ne evagriana tra praktiké, theorìa e theologhìa. Tuttavia, con la loro particolare distinzione delle variazioni dell'anima, che aprirà la via al pensiero monastico delle generazioni successive, Barsanufio e Giovanni offrono una nuova prospettiva alter­nativa di questo mondo, e non un'occasione di fuggire la realtà del mondo. Definendo i tre stadi della vita solitaria essi sottoli­neano il fatto che noi possiamo essere veramente uniti quando siamo veramente separati. Questa è essenzialmente l'esperien­za di lasciare la presa e di affidarsi. È la capacità di dimentica­re se stessi nello sforzo di raggiungere l'altro. Solitudine, silen­zio e quiete riguardano veramente "ogni pensiero, ogni affare e condotta e preoccupazione" della nostra vita. Ogni relazione richiede la stessa prossimità e la stessa separazione, la stessa ac­coglienza e la stessa distanza.
In questo senso i tre stadi della vita solitaria rappresentano una sfida per la paradossale o ideologica collisione che talvolta è messa in luce nella tradizione del deserto tra l'ideale del silen­zio e la realtà della verbosità. Questa era la via dei padri del de­serto trasmessa attraverso Evagrio Pontico e abba Zosima. Era l'insegnamento ricevuto e ripetuto da Barsanufio e Giovanni che dichiara che uno può essere con gli altri anche quando non è presente. Questa è l'idea che ispira la poesia australiana di Michael Leunig intitolata Sedendo sul muretto:
 
"Vieni a sederti accanto a me"
ho detto a me stesso;
e, anche se non ha senso,
mi sono tenuto per mano
come un piccolo segno di fiducia
e insieme sedevo [solo] sul muretto.

Tratto da: A.A.V.V, IL DESERTO DI GAZA - Barsanufio, Giovanni e Doroteo - ed. Qiqajon Comunità di Bose a cui si rimanda per le note e l'approfondimento.
 http://www.esicasmo.it/esicasmo.it.htm
PREGHIERA DEL MATTINO
Signore, fammi riconoscere l'impronta della tua gloria sul cammino della mia vita.
Fammi riconoscere i segni del tuo amore in tutto ciò che mi capita.
Non lasciare che la mia fiducia si indebolisca, ma fammi diventare luce di speranza per tutti quelli che ti cercano.
PREGHIERA DELLA SERA
Vivo sotto la tua protezione, Dio potente.
Vivo alla tua ombra.
Tu mi proteggi giorno e notte.
Io mi aggrappo a te
e tu non mi lasci cadere.
Tu mi proteggi, poiché tu conosci il mio nome.
Tu mi ascolti quando ti chiamo.
Tu sei vicino a me nella sciagura.
Tu dai un senso alla mia vita.
Tu mi fai vedere la tua salvezza.
Dio potente.
http://www.laparola.it/laparoladioggi.php

Giardino

Nel chiostro di ogni Abbazia c'è un giardino.
Quando Dio creò l'uomo lo collocò in un
giardino, dove lui incontrò la morte.
In un
giardino era il sepolcro da dove uscì Colui che la morte vinse.
Nell'antica lingua persiana
giardino significa paradiso.
Uno scorcio di cielo si affaccia sul
giardino di ogni chiostro.
Nella vita cenobitica la comunità ha una funzione essenziale per lo sviluppo della vita spirituale del monaco ma l’orizzonte monastico, rimane pur sempre l’orizzonte del deserto...
"
Perciò, ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. ... Là canterà come nei giorni della sua giovinezza…". (Osea cap. 2,16).
Il monaco ha gli occhi al deserto e le sue orecchie non sono tese alle eco dell’apostolato che assale le città del nemico delle anime, ma al silenzio delle remote montagne, dove Dio e il nemico si trovano a faccia a faccia in una misteriosa battaglia, di cui la battaglia del mondo non è che un riflesso.
La Chiesa monastica è la Chiesa del deserto, la donna che è fuggita nel deserto per sottrarsi al dragone che cerca di divorare il Verbo fanciullo. È la Chiesa che con la sua preghiera ottiene forza per gli stessi apostoli, tanto spesso tribolati dal mostro e incapaci di pregare. La Chiesa monastica è quella che fugge in un luogo particolare, preparato per lei da Dio nel deserto, e nasconde il suo volto nel mistero del silenzio divino e, mentre si combatte l’immane battagli tra terra e cielo, prega.
Ma la fuga non è evasione. Se il monaco potesse comprendere quel che accade dentro di lui, direbbe di sapere che proprio il suo cuore è il campo dove si combatte la battaglia.
(Testo tratto da uno scritto di Thomas Merton)

sopportiamo, non rassegnati ma stupidi

in una tanta varietà di querele, non si vedesse mai un tentativo, non iscappasse mai un grido di sommossa: almeno non se ne trova il minimo cenno. Eppure, tra coloro che vivevano e morivano in quella maniera, c’era un buon numero d’uomini educati a tutt’altro che a tollerare [ ... ] Ma noi uomini siam in generale fatti così: ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi; sopportiamo, non rassegnati ma stupidi, il colmo di ciò che da principio avevamo chiamato insopportabile.
A. MANZONI, I promessi sposi, cap. XXVIII

lunedì 12 luglio 2010

Ha a che fare con le distanze

“Avevi ragione: in fondo, sto cercando un compagno per un viaggio immaginario. Ma hai sbagliato nel dire che forse non ho bisogno di un compagno reale. E’ esattamente il contrario: ho bisogno di un compagno reale per il mio viaggio immaginario.”
David Grossman, Che tu sia per me il coltello

Ha a che fare con le distanze, tutta la vita ha a che fare con le distanze, le distanze tra le persone, la distanza tra te e la felicità, distanze da percorrere tutti i giorni, avanti e indietro, distanza tra quello che dici e quello che avresti voluto dire, tra quello che fai e quello che avresti voluto fare, distanze di spazio e tempo che non si possono annullare […]
Nicola Saddi

“Lui dice che scri­vere a qualcuno è l’unico modo di aspettarlo senza farsi del male. E io ti ho scritto. Tutto quello che ho dentro di me l’ho messo in questa lettera. Lui dice che tu capirai.”
Alessandro Baricco

Mi arrendo ai confini dei miei limiti. Ma combatto strenuamente dentro di essi, onestamente.
Andrea Pazienza

So ben poco. Ciò che mi hanno insegnato e le mie esperienze personali bastano appena per un pugno di verità

Kajetan Kovič
Scrivere è l’esortazione a non dimenticare chi si è, soprattutto nel momento in cui ci si affaccia pericolosamente sul bordo di un precipizio che, se affrontato con coraggio, non si apre nel vuoto assoluto.

      REGOLE DEL GIOCO (Poetica) Bisogna trovare parole cariche di elettricità. Bisogna metterle in fila e trasformarle in batterie. Bisogna convogliare i fiumi e costruire turbine. Bisogna erigere linee di alta tensione. Bisogna commissionare la pioggia. Tutto dev’essere pronto. All’arrivo della grande acqua una poesia vera funziona come una centrale elettrica.
          SOLO COSÌSo ben poco. Ciò che mi hanno insegnato e le mie esperienze personali bastano appena per un pugno di verità. Le ripeto tra la gente che in apparenza la pensa come me, e le colloco tra me e gli altri come uno steccato, dietro cui i miei pensieri particolari si muovono al sicuro. Non temo di parlare in pubblico, ma definire le cose in quanto tali, esattamente, esige forza. Devi essere aperto come una ferita, perché il vero nome delle cose è nascosto sotto il primo, il secondo e il terzo strato delle parole o ancora più in fondo. Non è possibile scavare di continuo nel proprio intimo senza conseguenze durature e inoltre è perfino inutile guidare teste che corrono a vuoto e forestieri, giunti da lontano, attraverso una miniera, ricca di metalli che nemmeno apprezzano. Soltanto per non dimenticare chi sono, e per coloro che senza questo alimento non riescono a vivere, penetro spontaneamente come il simbolico pellicano nel mio cuore tenebroso. Così intendo questo mondo. E non so vivere diversamente. Tutto il resto è sonno e nulla.

     Umiltà e dignità, questi sono i due vocaboli che per primi mi vengono in mente di fronte alla poesia di Kajetan Kovič, uno dei maggiori autori sloveni contemporanei. Come lui stesso afferma altrove, scrivere non è diventare “un sapiente presuntuoso, (ma) restare piuttosto un apprendista fino alla fine”, oppure ancora scrivere come se quello che si deve dire potesse “rimanere / anche non scritto”.
     Illuminanti a questo proposito sono le sue Regole del Gioco: la parola ha bisogno del suo significato, ne vive e acquista peso, o – per usare la sua espressione – “elettricità”, ma non è l’autore che può conferirgliela. A lui spetta invece il compito di preparare ed incanalare tutto, di restare in ascolto, a lui compete la parte che è ricerca ma non in senso stretto creazione. A lui spettano inoltre anche il dolore e soprattutto il coraggio del dolore, perché “devi essere aperto / come una ferita, / perché il vero nome delle cose / è nascosto / sotto il primo, il secondo e / il terzo strato delle parole / o ancora più in fondo.” La lingua è l’attrezzo di un artigiano dove questo termine non ha in sé nulla di diminutivo, in quanto racchiude la comunanza fra costruttore e oggetto costruito, che è appunto la poesia. Per lingua però, nel caso di Kovič, possiamo intendere qualcosa di più vasto dell’insieme delle parole e delle espressioni: viene invece da pensare a un vocabolario interiore, in cui la forma (la parola, appunto) è connaturata al proprio significato e dunque all’uomo che la custodisce, così come la ricerca è un percorso personale prima, molto prima che artistico.
     “Non sei un monumento / ma una formica viva. / E devi portare la tua travicella in capo al mondo. / Tu non sei importante, / è importante la trave. // E forse: il formicaio”. L’umiltà cui accennavo prima ritorna con accezione più vasta e profonda, che sembra negare e annegare la dimensione individuale ampliando la prospettiva verso limiti infinitamente grandi o infinitamente piccoli nello spazio e nel tempo. La prospettiva si disloca e l’uomo diventa più piccolo di una formica, o, come in Epitaffio, “nato chissà quando / e chissà perché”. E non può trovare una prospettiva di realizzazione, come spesso è accaduto, in un sistema (ideologico, politico) che riesca ad operare la somma algebrica del valore dei singoli, così come la morte dei soldati non acquista significato nel concetto di patria che essi hanno difeso.
     Mentre chiude con decisione alcune porte, però, Kovič ne apre altre. “Adesso sai: è così. / Ma non ti butterai a terra / … /perché non sei una bestia / e non sei neanche un mago”. Non sei una bestia, appunto, ma un uomo, e dell’uomo devi cercare la dignità, che risiede nella consapevolezza dell’essere, della finitezza ed al tempo stesso dell’unicità di un mondo che è soprattutto spirituale. Del resto bisogna “commissionare la pioggia” – non aspettarla – se si vuole cercare il vero nome delle cose, il “pugno di verità” che potrebbe appartenerci, senza il quale “tutto il resto è sonno / o nulla”. Scrivere è l’esortazione a non dimenticare chi si è, soprattutto nel momento in cui ci si affaccia pericolosamente sul bordo di un precipizio che, se affrontato con coraggio, non si apre nel vuoto assoluto.  “Costruisco l’edificio dell’anima”, “costruisco la conchiglia dell’essere”, così come ognuno deve costruire la propria, ed è una lotta, sottolinea Kovič, come scalare il cielo. Non ci sono salvezze né terre promesse da raggiungere, se non la certezza di avere conquistato qualcosa di piccolo ed enorme insieme, di inondarsi una sola volta “con il gusto del paradiso”.
(Francesco Tomada)