sabato 22 settembre 2012

L'uomo non è mai tanto povero come quando si accorge che gli manca tutto


La vita di ognuno è un'attesa. Il presente non basta a nessuno: l'occhio e il cuore sono sempre avanti, oltre la breve gioia, oltre il limite del nostro possesso, oltre le mete raggiunte con aspra fatica.
In un primo momento pare che ci manchi solo qualcosa: più tardi ci si accorge che ci manca Qualcuno.
E lo attendiamo.
Ogni popolo, come ogni cuore, è in stato messianico. La nostra epoca è forse l'epoca più messianica della storia.
Tale attesa, calma o disperata, silenziosa o urlante, è il disegno inconfondibile della nostra povertà e della nostra grandezza.
L'uomo non è mai tanto povero come quando si accorge che gli manca tutto: non è mai tanto grande come quando, da questa stessa povertà, tende le braccia e il cuore verso Qualcuno.
Cristo è questo Qualcuno.
Il profeta lo chiama «il Veniente».
Poiché egli è colui che viene, io sono colui che attende.
E l'inquietudine di chi attende si placa nella carità di chi viene: come l'incarnazione è l'inizio compiuto ed esemplare dell'incontro, il suo fermento.
La nostra attesa è così assetata, che spesso rivolgiamo male la nostra ricerca e ancor peggio collochiamo il nostro cuore.
Gli stessi eletti possono avere momenti di esitazione. Il fatto di Giovanni il Battista, secondo l'odierno Vangelo, insegna.
Egli aveva visto Gesù sulle rive del Giordano: l'aveva battezzato e indicato al popolo come «l'Agnello di Dio...». Poi, non l'aveva più incontrato. E, adesso, era in prigione a motivo di Erodiade...
Certe prove mettono in discussione tutte le nostre certezze.
Io l'ho provato qualche mese fa. Lo scoramento spirituale può prendere anche i santi e i profeti; solo coloro, che si dimenticano di ascoltare il cuore dell’uomo nel santo, ne fanno meraviglia.
La differenza tra noi e i santi è nella maniera con cui si fa fronte allo smarrimento.
Noi accogliamo il dubbio e ci lasciamo prendere dall'accidia...
Nella domanda che i discepoli di Giovanni portano a Cristo c'è già qualcosa di bruciante.
Senza fede non si vive.
Un naufrago si attacca a tutto: a una tavola, a una corda, a un filo d'erba.
L'uomo non può fare il naufrago per tutta la vita.
Purché sia uomo e non «una canna agitata dal vento»! I problemi dello spirito sono guardati seriamente e vissuti passionalmente soltanto dai veri uomini.
Le «canne agitate dal vento» (che non hanno nulla a che vedere con «le canne pensanti» di Pascal perché non pensano affatto) si credono libere perché servono tutti i padroni e deridono il profeta che, per servire uno solo, abbandona la propria testa sul piatto del festino
Tratto da Primo Mazzolari - ”La parola che salva”- Edb 1995

venerdì 21 settembre 2012

Soprattutto se il cuore, quel giorno, non mi fa male,

Nazim Hikmet (da Fabio Lanzetta)
"Veder cadere le foglie mi lacera dentro,
soprattutto le foglie dei viali.
Soprattutto se sono ippocastani,
soprattutto se passano dei bimbi,
soprattutto se il cielo è sereno,
soprattutto se ho avuto, quel giorno,
una buona notizia.
Soprattutto se il cuore, quel giorno,
non mi fa male,
soprattutto se credo, quel giorno,
che quella che amo mi ami.
Soprattutto se quel giorno
mi sento d'accordo
con gli uomini e con me stesso.
Veder cadere le foglie mi lacera dentro,
soprattutto le foglie dei viali,
dei viali d'ippocastani."

giovedì 20 settembre 2012

Se le usassimo per noi stessi, potremmo cambiare

Non possiamo cambiare gli altri, per cui lasciamo stare: noi, invece, sprechiamo molte energie nel tentativo di fare ciò. Se le usassimo per noi stessi, potremmo cambiare, e se noi cambiamo, anche gli altri si adegueranno.
Non possiamo nemmeno imparare a conoscere la vita per un altro: ognuno deve agire da sé. Tutto quello che possiamo fare è cercare di apprendere per noi stessi e, prima di tutto, di amare noi stessi: in questo modo impediremo agli altri di affliggerci e deprimerci con il loro comportamento distruttivo.
Se ci troviamo a contatto con una persona effettivamente negativa che non desidera cambiare, dobbiamo avere abbastanza amore da staccarcene.”
 – Louise Hay-

mercoledì 19 settembre 2012

vivere senza ripiegare nella sua forma peggiore che è il ripiegarsi


"Carissimo Giobbe,
quando viene a mancare l'oro della forza, l'argento della fiducia in se stessi, il bronzo delle piccole sicurezze, basta che rimanga viva l'invisibile fede nella vita come compito per apprenderne il mistero e l'arte di soffrire, senza impazzire di dolore o cedere alla funesta rassegnazione che sarebbe peggiore del morire. Il compito di ogni uomo e donna sulla terra è quello di imparare a resistere alla grande tentazione di trasformare - per se stessi e per gli altri - l'intera esistenza in una fossa di macerazione nella rabbia e nel rammarico. Nessun dolore e nessuna sofferenza sono per se stesse un inferno, per quanto le pene e le angosce lo facciano talora sentire e pensare, ma il rammarico lo è e, come dice l'Amico fedele e provato, il suo "verme non muore" (Mc 9,48).
Come è avvenuto per te, caro Giobbe, vorrei anche per me che un diluvio di grazia, dopo un diluvio di guai, riporti la terra del mio cuore ad un rinnovato, e non identico splendore.
Ed ora voglio ringraziarti di tutto cuore, perché accompagnandomi a te, mi hai permesso di accompagnarmi a me stesso per crescere in "coscienza che sia umana" e di farlo serenamente e più in pace.
L'umiltà che genera la pace non è altro che la fatica di accettare il limite e i limiti della propria esistenza, facendone un comandamento di fondo per camminare verso la serenità che, secondo l'espressione ad effetto di Peter Ricardo, suonerebbe così: "Onora il tuo limite". Giobbe carissimo, ho imparato a mie spese a diffidare di quelli che predicano l'umiltà e la esigono dai loro fratelli e sorelle in umanità come fosse un compito da espletare; l'umiltà non si sa e, se è vera, ignora se stessa e si fa ignorante per quanto riguarda quella degli altri. L'umiltà che dona pace e che la porta è un piegarsi verso la terra - humus -, sentendosi tutt'uno con essa e con tutto ciò che vi è maternamente nutrito e, talora, paternamente provato e abbandonato. La pace, verso cui ogni creatura sotto il cielo anela così faticosamente, diventa possibile solo quando si accetta che la vita continui e debba continuare il suo cammino indipendentemente, allora si diventa saggi, perché si ritrova quella semplicità e originale innocenza che permette di ascoltare il reale, di prendersi cura delle situazioni, ma con grande distacco, con spirito di assoluta povertà. La pace, quella del cuore e quella che si diffonde a partire dal cuore, è sempre il frutto di un 2disarmo dogmatico", che ci fa avanzare a mani nude e cuore leggero, come una piuma.
Non è forse questo l'atteggiamento più promettente per poter, infine, semplicemente esser vivi, tentando di raggiungere un livello accettabile di umanità? Anche il desiderio della santità dovrebbe identificarsi semplicemente con questo desiderio di giusta umanità che ci fa vivere serenamente entro il limite della nostra creaturalità, liberandoci da tutta una serie infinita di pretese che sarebbero da moderare, quasi fino ad annientare, per ritrovare la pace quale frutto della libertà dall'ansia di dimostrare e di imporsi. Avere un compito, certo, su questa terra e per questa terra, sentire la vita come un compito, ma non essere in alcun modo inquieti di portarlo a termine, di poterlo classificare, nominare troppo ed eventualmente candidare per qualche "premio". Agire senza sapere cosa si fa realmente, ma lasciare che accada, rinunciando così a quella volontà di potenza che toglie la pace a se stessi e impone, spesso e nelle forme più crasse o più raffinate, la guerra ai nostri simili e alle creature con cui condividiamo il nostro piccolo spazio sotto il cielo infinito" ...
Per vivere senza ripiegare nella sua forma peggiore che è il ripiegarsi, è necessario prendere coscienza di quello spirito che è stato infuso tra le pieghe, talora sgualcite, della veste del corpo che mi abita e in cui siamo destinati ad essere ospiti e padroni di casa per sempre. Eppure quale cammino è necessario per riconoscere di essere stati da sempre amati e voluti per poter sempre amare!". 
Caro Giobbe
di MichaelDavide Semeraro

martedì 18 settembre 2012

esigerebbe solo silenzio e sospensione assoluti


"Se la sofferenza non ha attraversato la tua vita, sicuramente questo libro non è per te!
Se il dolore ha scavato lunghi solchi forse questo libro non è per te!
Se comunque decidi di leggerlo, perdonami se qualche parola o evocazione ti potrà ferire: il rispetto infinito che si deve alla sofferenza esigerebbe solo silenzio e sospensione assoluti".
Firmato: fratel MichaelDavide.

lunedì 17 settembre 2012

Le nostre idee sono i nostri occhiali

Émile-Auguste Chartier 
Non ho mai consigliato a nessuno di cambiare opinione. Neppure di cambiare i propri occhi con quelli di qualcun’altro, ma piuttosto di imparare a servirsene. Ugualmente si può dire per le vostre opinioni: rendetele buone. Non tanto cercando opinioni estranee sino a trovare quella vera, poiché non esiste un’opinione vera. Nessuno ha mai avuto né mai avrà un’idea vera; ma esiste, piuttosto, un modo vero di avere un’idea qualunque, ed è quello di vedervi le cose attraverso. Le nostre idee sono i nostri occhiali. É utile avere qualche lente d’ingrandimento per valutare l’aspetto di Marte, ma conservare la saggezza nei giudizi sul pianeta Marte, non dipende affatto dalla vostra lente. Quindi quando dite: “Sono socialista, comunista, cattolico o monarchico”, non assomiglia all’apprendista del botanico che dice tra sé e sé: “Ho comprato un microscopio ed eccomi diventato sapiente”.

domenica 16 settembre 2012

siamo quelli che fanno suonare le campane


Così racconta mons. Tonino Bello nel suo libro «I
cirenei della gioia»:
Qualche mese fa, concludendo la visita pastorale in
una parrocchia della mia Diocesi, l’ultimo giorno
andai in una scuola materna. C’erano tantissimi
bambini di tre, quattro anni che si affollavano stupiti
intorno a me: non mi conoscevano, e mi vedevano
come un personaggio esotico.
La maestra chiese: «Bambini, sapete chi è il
vescovo?» Tutti diedero delle risposte. Uno disse: «E’
quello che porta il cappello lungo in testa»; un altro,
chissà per quale associazione di immagini, disse una
cosa bellissima che a me piacque tanto: «Il Vescovo
è quello che fa suonare le campane». Il Vescovo
come colui che fa suonare le campane è una
definizione bellissima, forse poco teologica ma profondamente umana.
Sarebbe bello che la gente
dicesse di tutti noi preti che «siamo quelli che fanno
suonare le campane», le campane delle gioia di
Pasqua, le campane della speranza.