venerdì 11 aprile 2014

33° giorno Proprio in questo punto il modello umano di Cristo introduce una novità: in Lui troveremo solo l’affidamento della propria causa a Dio, ma non la richiesta di punizione.


 In questo capitolo 20 di Geremia, che riporta una sezione delle cosiddette “confessioni” del profeta, e che costituisce la prima lettura odierna, è tratteggiata in modo drammatico l’atmosfera di sospetto che lo circonda, mettendo in serio pericolo la sua stessa vita. In questo testo, così vicino alla figura di Cristo sotto l’aspetto del mistero della persecuzione subita dall’uomo giusto e fedele alla Parola di Dio, vi sono tuttavia elementi di contrasto con quello che in Cristo si rivela come un atteggiamento nuovo, e in un certo senso inedito, nei confronti dei propri nemici. Da un lato il profeta Geremia consegna la sua causa a Dio, dall’altro esprime il desiderio e il bisogno del suo cuore di ottenere una rivalsa o una vendetta su chi insidia la sua vita. Egli, infatti, desidera vedere la punizione divina abbattersi sui suoi nemici. La sua preghiera è improntata ad una visione delle cose che spesso ricorre nei salmi di genere imprecatorio; si tratta infatti di una preghiera che chiede a Dio la punizione dei propri nemici: “Signore degli eserciti possa io vedere la tua vendetta su di essi, poiché a te ho affidato la mia causa”. Proprio in questo punto il modello umano di Cristo introduce una novità: in Lui troveremo solo l’affidamento della propria causa a Dio, ma non la richiesta di punizione. Essa infatti si è già interamente abbattuta su di Lui. Geremia, nel chiedere a Dio vendetta sui propri nemici, svela i suoi limiti veterotestamentari, ossia la sua appartenenza a una fase della rivelazione ancora incompleta e bisognosa di perfezionamento. Dall’altro lato, la preghiera imprecatoria di Geremia contiene una verità che fa eco, in qualche modo, all’insegnamento del Deuteronomio circa la sofferenza d’Israele nel deserto: “Signore degli eserciti che provi il giusto e scruti il cuore e la mente”. Questa preghiera è un’eco di quelle parole del Deuteronomio, dove si dice che Dio ha fatto passare Israele attraverso la prova per conoscere quello che aveva nel cuore, ma in realtà non è Dio che ha bisogno di conoscere il cuore umano, nel quale Lui legge senza difficoltà, siamo piuttosto noi che, attraverso la prova, giungiamo a un grado maggiore di conoscenza di noi stessi. Non sapremo mai, ad esempio, se siamo veramente capaci d’ubbidienza, se non si verificheranno delle circostanze nelle quali la nostra ubbidienza diventi difficile e sofferta, ma accettata tuttavia di buon grado. Non sapremo mai se saremo in grado di perdonare davvero il nostro prossimo, se nessuno ci affligge, ci offende o ci perseguita.  
Don Vincenzo Cuffaro

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