martedì 24 gennaio 2012

pensavamo l' amicizia come il prolungamento di una fede


L' amicizia prima di Facebook

QUEL che ricordo dell' amicizia ai tempi in cui non esisteva Facebook e nemmeno la Rete, le mail, gli sms l' ho scritto in Emmaus, nell' amicizia di quei quattro ragazzini diciassettenni che muovono il romanzo. I libri non sono mai, stupidamente, la verità, maè vero che noi eravamo più o meno così, come quei quattro. Una cosa che ricordo bene, ad esempio, è che pensavamo l' amicizia come il prolungamento di una fede: fosse religiosa, come nel nostro caso, o anche laica, o politica, non importava. Anche il Toro andava bene. Ma era importante quel credere comune, non sarebbe bastata la simpatia né qualsiasi altra prossimità sentimentale. A tenerci uniti era la certezza che stavamo combattendo insieme una qualche sotterranea guerra, di cui poi non capivamo neanche molto. In definitiva negli amici cercavamo meno un sollievo alle nostre solitudini che non l' iscrizione a un qualche eroismo collettivo. Ciò dava ai legami un tratto di necessità, o forse di sacralità, che ci faceva impazzire. Vi trovavamo una fermezza, un' inevitabilità, che non trovavamo altrove. Va da sé che non c' erano amici che non lo fossero per la pelle. Come i quattro di Emmaus, da ragazzi costruivamo le amicizie su una bolla di dolore. Quando non c' era, ce la inventavamo, credo. Ma sempre ci si riconoscevaa partire da una ferita, e ci si voleva bene - e quanto - scambiandoci il segreto della nostra tristezza. Ne sapevano poco le nostre famiglie, e niente il mondo: ma lo spazio di quel penare, che tenevamo segreto, dettava il perimetro di una luogo riservatissimo a cui proprio le amicizie, e solo loro, accedevano. Così essere amici significava condividere un segreto. E scambiare malinconia. Non voglio dire che fossimo depressi o pateticamente romantici (magari lo eravamo anche un po' , ma non è quello il punto), voglio dire che quando cercavamo il massimo della vicinanza ci riusciva più facile farlo entrando nell' ombra dei nostri pensieri cupi, perché lì trovavamo la perfezione. L' allegria era meno interessante. Della felicità non ci accorgevamo. E poiché non esisteva Facebook, essere amici significava fare delle cose. Non parlarne, o raccontarle: farle. Se cerco di ricordare momenti precisi che significassero amicizia, vedo scene in cui sempre stavamo facendo qualcosa. E mai in casa. Esisteva un nesso preciso tra l' alzare il culo per andare a fare cose e il vivere le amicizie. Anche quando ci scrivevamo, era una cosa particolare, accadeva di rado, e allora una lettera era molto più un fatto che un modo di comunicare. Era un gesto. Le telefonate interminabili (ciò che di più vicino riesco a immaginare al chattare odierno) ce le tenevamo per le fidanzate: tra noi sarebbe stato ridicolo. Parlavamo molto, naturalmente, ma era sempre roba cucita in un gesto, e tempo legittimato da altro tempo, speso in un qualche lavorìo. Ci sarebbe parso tremendamente vacuo frequentarci via computer. Non avremmo saputo cosa dirci. Quando invece anche solo il "tornare da giocare a pallone" diventava uno spazio perfetto, di camminate memorabili, e parole a lungo covate. C' entravano il sudore addosso, le scarpe slacciate, e il pallone, sporco da far schifo, tra le mani, e farlo rimbalzare. Una finestrella su uno schermo, quello ci sarebbe apparso come un ripiego inspiegabile. Tutto ciò ci costringe a concludere spesso, usando un termine che è tramontato, che quelle erano amicizie profonde. Tacitamente, intendiamo dire che quelle di Facebook non lo sono. Ma la realtà non è così semplice. Se un termine tramonta un perché ci sarà, e l' estinguersi di un profilo certo, per la parola profondità, qualcosa deve insegnarci. Era il nome che davamo a una certa intensità, ma era un nome probabilmente inesatto. Alludeva a coordinate (superficie profondità) che il mondo quasi certamente non ha: oggi appaiono come una semplificazione un po' infantile, e stanno all' esperienza reale come un cartone sta al 3D. Strumenti poveri, verrebbe da dire. Così ci resta la memoria di una certa intensità, ma pochi nomi certi per nominarla con esattezza. Per questo trarre delle conclusioni che non siano da bar sembra difficile. Io posso giusto annotare un' osservazione che oltre tutto ha il limite di riferirsi alla mia esperienza personale: in genere la "profondità" che tendo ad attribuire retrospettivamente a quelle amicizie non sembra aver influito sulla loro resistenza al tempo. Alcune se ne sono sparite, altre sono rimaste, come se una regola non ci fosse: ha tutta l' aria di essere una faccenda dannatamente casuale. E se mi trovo ancora appiccicato addosso persone con cui tornavo da giocare a pallone, è vero che tante altre amicizie che erano analogamente "profonde" se ne sono andate con un fare liquido strabiliante, come se non avessero agganci da nessuna parte, e la benché minima forma di necessità. È bastato alle volte uno spostamento minimo, un' inezia, e già non c' erano più. Così quelle che sembravano pietre incastonate si sono svelate pietre appoggiate su qualcosa di sdrucciolevole: e la petrosità una categoria che solo nella fantasia ha un nesso necessario con la permanenza. Da giovani non potevamo immaginarlo, ma la verità è che si può essere petrosi e provvisori, noi lo eravamo. Rolling stones, come ci insegnò poi qualcuno che, senza saperlo, aveva già capito tutto. - ALESSANDRO BARICCO

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