giovedì 12 luglio 2012

con le palme agitate al ciglio delle strade

Non perdere la fede in ciò che hai fatto,
Padre nostro,
non pentirti, non hai soffiato invano
sulla creta.
Non arrenderti, Padre, siamo figli invecchiati
nell’attesa di vederti arrivare
a mani piene,
di pregarti senza pagare il pegno,
di tradirti e non chinare il capo.
Non ritrarti, non rompere il disegno
di sfiorarci nel sogno con le mani,
non affidarti alle tue sole forze,
senza noi, le preghiere, i lamenti,
le bestemmie, persino gli abbandoni,
di chi saresti Padre?
Della mandria paziente, stupefatta
e inerte, dietro un pastore cieco per guida?
Non dolerti se abbiamo usato male
l’arbitrio: non ci volevi pronti a giocarci
la posta, te compreso?
Giobbe non fu paziente, lo lacerava
il dubbio che il dolore ci venisse
da te: tu ci sarai quel giorno,
si chiedeva, quando sapremo se sull’animo
nostro cadrà la saetta o la manna?
E noi, dies illa, a guardare chi passa
per la cruna, se davvero spartisci
sulla soglia i dannati voluti dalla storia o da te,
i privi anche di un solco disseccato
per coprire di polvere un talento
e aspettare il suo frutto
con il pianto per pioggia?
Stava nel tuo disegno il flauto
e lo stridio, la rapsodia e il tumulto,
duemila anni e tutto ha l’effusione
e i furori di prima,
Caino sul collo del fratello,
Sodoma e Gomorra, Erode, i roghi, i forni,
la pelle anche dell’anima,
il ventre dei ragazzi colmo d’odio e di ferro,
lo zolfo degli adulti che avvampa nelle occhiaie
di altri fanciulli,
la tua pietà scuoiata con le mani da chi ogni giorno
scava l’arena bianca dei morti d’ingiustizia
sempre e dovunque, fino alle torri
colpite nel costato, parrebbe, di Gesù,
risucchiate dentro il tuo pianeta,
e ancora sangue nella terra trina
di Abramo.
Perché tanto vento alla storia, e contarci i respiri?
Torna prodigo a noi, vieni alla porta
a darci conto della latitanza,
per le ferite chiedici gli unguenti,
sii malato, se lo sei, esigi il prezzo
dovuto al figlio tuo, noi pure
sapevamo del gallo quel mattino; ma rammenta,
ci avevi fatto per alzare quei legni, per i chiodi,
le spine, perché il peso gli schiantasse le ossa,
era tutto deciso.
Non pentirti del figlio, è in lui che ci somigli,
non volerci simili a te, rimani un Padre
sperso tra mondi alla deriva, spetta a noi rinnegarti.
Adesso che il creato geme nei cieli e nelle case
persino di Betlemme, non temere, saremo noi
a piantare sul Golgota gli ulivi
e l’uva nel deserto,
a strizzare i tracomi tra le dita,
a risvegliare i pesci storditi dalla luna,
a rigonfiare il pane nelle madie;
ma non cessare di darci
la tua paternità offerta e sperperata,
se tu sei tutto in tutti
non rovesciare la domanda,
non dire figlio mio, perché mi lasci solo?
Tu non puoi dubitare,
altrimenti saremmo nell’armento,
non sentiresti noi che ti diciamo Abbà,
Padre nostro;
se t’inganni su noi non hai la prova
di chi sei, diventi uno di noi in cerca
del suo padre, ti fai fratello privandoci di te.
Resta chi sei,
non rinunciare all’abissale dono
che pure hai concepito,
tu soltanto oltrepassi la morte,
scienza e filosofia stanno al di qua,
solo tu ci prolunghi nell’eterno,
la tua promessa immane.
Torna a lanciare arcobaleni,
è tempo di comete non di astri irritati,
non arroccarti nella lontananza, lasciaci
preparare corde e ganci per venire a salvarti,
portarti qui a vedere dove siamo risorti,
a svellere la croce e poi verso Gerusalemme
tutti insieme, con le palme agitate
al ciglio delle strade sui morenti e dentro il pugno
i chiodi da gettare nel Giordano.
Fa’ conto che si scali la tua luce,
ti si cinga di funi
per averti quaggiù,
Padre nostro che sei nei cieli;
perché così ti eleggo nel segno della croce,
ti faccio testimone in te di me,
m’imprimo su quei legni con due parole appena,
così sia.

Sergio Zavoli

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