del vescovo Anthony Bloom
    Quando diciamo che stiamo dinanzi a Dio,    pensiamo sempre che siamo qui, e che Dio è là, esterno a noi. Se    cerchiamo Dio in alto, davanti o attorno a noi, non lo troveremo. San    Giovanni Crisostomo diceva: “Trovate la porta della camera segreta del    vostro cuore, e scoprirete che è la porta del Regno dei cieli”. Sant’Efrem    il Siro dice che Dio, quando creò l’uomo, mise nel più profondo di lui    tutto il Regno, e che il problema della vita umana è di scavare    abbastanza in profondità per giungere fino al tesoro nascosto. È per    questo che, per trovare Dio, dobbiamo scavare, alla ricerca di questa    camera segreta, di questo luogo dove si trova il Regno di Dio al cuore    stesso del nostro essere, dove Dio e noi possiamo incontrarci.
    Il migliore strumento, quello che    supererà tutti gli ostacoli, è la preghiera. Il problema è di pregare    con attenzione, semplicemente e nella verità, senza sostituire il vero    Dio con un falso dio qualunque, con un idolo, con un prodotto della    nostra immaginazione, e senza cercare di vivere un’esperienza mistica.    Concentrandoci su ciò che diciamo, certi che ogni parola che pronunciamo    raggiunge Dio, possiamo utilizzare le nostre parole, o le parole di    quelli che sono più grandi di noi per esprimere meglio, di quanto lo    potremmo noi, ciò che proviamo o sentiamo oscuramente in noi. Non è con    la molteplicità delle parole che saremo ascoltati da Dio, ma con la loro    veridicità. Quando usiamo le nostre parole, dobbiamo parlare a Dio con    precisione, senza cercare di farla lunga o farla corta, ma parlare con    verità.
    Ci sono momenti in cui le preghiere sono    spontanee e facili, altre dove ci sembra che la fonte si sia esaurita. È    allora che è necessario utilizzare le preghiere di altri che esprimono    fondamentalmente ciò che crediamo, tutte queste realtà che in questo    momento non sono vivificate da una reazione profonda del nostro cuore.    Dobbiamo allora pregare con un doppio atto di fede, non soltanto in Dio    ma anche in noi stessi, fiduciosi in questa fede che si è offuscata ma    che fa tuttavia parte integrante del nostro essere.
    Ci sono momenti in cui non abbiamo alcun    bisogno di parole, né delle nostre né di altri, e preghiamo allora in    silenzio. Questo silenzio perfetto è la preghiera ideale, purché    tuttavia il silenzio sia reale e non un sogno ad occhi aperti. Abbiamo    molta poca esperienza di ciò che significa il silenzio profondo del    corpo e del cuore, quando una serenità assoluta riempie il cuore, quando    una pace totale riempie il corpo, quando non c’è nessuna agitazione di    nessun tipo e ci troviamo dinanzi a Dio, completamente aperti in un atto    d’adorazione. Ci possono essere momenti in cui ci sentiamo bene    fisicamente, e mentalmente rilassati, stanchi delle parole perché ne    abbiamo già troppo utilizzato; non vogliamo agitarci e ci sentiamo bene    in quest’equilibrio delicato; ci troviamo là sul bordo del sogno ad    occhi aperti. Il silenzio interiore è un’assenza di qualsiasi tipo di    agitazione del pensiero o delle emozioni, ma è una vigilanza totale, una    apertura a Dio. Dobbiamo conservare il silenzio assoluto quando lo    possiamo, ma non dobbiamo mai lasciarlo degenerare in un semplice    piacere. Per evitare ciò, i grandi autori dell’Ortodossia ci avvertono    di non abbandonare mai completamente le forme normali della preghiera,    poiché anche coloro che avevano raggiunto questo silenzio della    contemplazione giudicavano necessario, ogni volta che erano in pericolo    di rilassamento spirituale, reintrodurre le parole della preghiera fino    a che la preghiera avesse rinnovato il silenzio.
    I Padri Greci mettevano questo silenzio,    che chiamavano hesychia, allo stesso tempo come punto di partenza    e punto d’arrivo di una vita di preghiera. Il silenzio è lo stato nel    quale tutte le facoltà dell’anima e del corpo sono completamente in    pace, calme e raccolte, concentrate e perfettamente vigilanti, libere da    qualsiasi agitazione. I Padri utilizzano spesso nei loro scritti    l’immagine dello stagno: finché ci sono delle crespe sulla superficie,    nulla può essere correttamente riflesso, né gli alberi né il cielo;    quando la superficie è completamente calma, il cielo si riflette    perfettamente, come gli alberi della riva, e tutto è distinto come nella    realtà.
    Un’altra immagine dello stesso tipo    utilizzata dai Padri è quella del fango che, finché non si posa sul    fondo dello stagno, lontano da qualsiasi agitazione, intorbida la    trasparenza dell’acqua. Queste due analogie si applicano allo stato del    cuore umano. “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio” (Matteo 5, 8).    Fino a quando il fango è agitato nell’acqua, non è possibile una visione    chiara, e fino a quando ci sono crespe sulla superficie, gli oggetti che    circondano lo stagno non possono riflettersi senza deformazioni.
    Fino a quando l’anima non è in riposo,    non ci può essere visione, ma quando la pace ci ha permesso di trovarci    in presenza di Dio, allora un altro tipo di silenzio, molto più    assoluto, interviene: il silenzio di un’anima che non è soltanto calma e    raccolta, ma alla quale la presenza di Dio impone rispetto e adorazione;    un silenzio nel quale, secondo le parole di Giuliana di Norwich, “la    preghiera unisce l’anima a Dio”.
  
Nessun commento:
Posta un commento