domenica 23 marzo 2014

In diversi contesti si coglie questa corrispondenza: non accade mai che il popolo si ribelli a Dio e ubbidisca a Mosè. La ribellione è sempre portata avanti inseparabilmente sui due versanti divino e umano.


 Il libro dell’Esodo descrive un momento di prova attraversato da Israele nel deserto, all’uscita dall’Egitto. Il popolo eletto, dopo avere sperimentato l’intervento salvifico del Signore contro il faraone e il dono della manna, in un momento di dure privazioni, 
giunge stranamente alla mormorazione contro Dio, come se non avesse mai sperimentato il suo soccorso. La prima difficoltà nel cammino nel deserto è già sufficiente a creare una crisi di fede, portando Israele alla domanda: 
Il Signore è in mezzo a noi sì o no?” (v. 7). Questa crisi di fede è particolarmente significativa, se si trasferisce la situazione narrata dall’Esodo nella concretezza della vita cristiana, dove la fede teologale non deve consistere nell’adesione data a Dio in seguito a una grazia ricevuta. L’autentica fede descritta dai due Testamenti è un atteggiamento di adesione a Dio in quanto Dio, non in base a qualsivoglia dimostrazione. Se il cammino di fede dovesse nascere dall’esperienza di un dono ricevuto, allora accadrebbe come ad Israele nel deserto: alla prima difficoltà nascerebbe il dubbio e l’adesione personale al Signore sarebbe radicalmente indebolita. La fede autenticamente teologale è piuttosto un’adesione oscura all’agire sapiente di Dio. Essa nelle narrazioni evangeliche avrà delle straordinarie icone. Possiamo ricordare la Cananea che, davanti al rifiuto di Gesù, continua a credere e ad attendere fiduciosamente un suo intervento liberatore, anche quando tutto sembrerebbe andare in senso contrario (cfr. Mt 15,21-28; Mc 7,24-30). Se Cristo non le avesse mostrato la sua indifferenza, se non le avesse dato la sensazione di essere respinta, essa non avrebbe avuto l’occasione di superare se stessa e di compiere un atto di fede veramente eroico, che merita l’elogio di Cristo. Il vertice della fede è, infatti, toccato da questa donna quando, senza poter appoggiare la propria fede su alcuna dimostrazione, anzi avendo come unico dato di fatto l’indifferenza del Messia verso i suoi bisogni, continua tuttavia a credere. Oseremmo dire che questa donna è il personaggio neotestamentario più simile al Cristo crocifisso, che si abbandona fiduciosamente nelle mani di Colui che apparentemente lo ha abbandonato al suo destino: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Forse non è possibile a una creatura umana glorificare Dio oltre questo punto.
Va notato pure che, nel racconto dell’Esodo, il dubbio di fede nei confronti di Dio non è separabile dalla sfiducia nei confronti dell’uomo di Dio. In diversi contesti si coglie questa corrispondenza: non accade mai che il popolo si ribelli a Dio e ubbidisca a Mosè. La ribellione è sempre portata avanti inseparabilmente sui due versanti divino e umano. Israele dubita dell’amore divino e simultaneamente getta ombre di sospetto anche sull’autorità di Mosè, rivolgendogli questa irrispettosa domanda: “Perché ci hai fatto salire dall’Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?” (v. 3). Tale interrogativo esprime un dubbio radicale nei confronti del ministero Mosè, ma rivela anche una ribellione più profonda, che implica la negazione del disegno salvifico di Dio.
Il Signore risolve questa situazione drammatica, in cui Mosè rischia di essere lapidato, attraverso un intervento carismatico, ingiungendo al suo servo di colpire una roccia, da cui uscirà dell’acqua che disseterà Israele (cfr. vv. 5-6). Non si tratta, quindi, di guidare Mosè verso una sorgente; Dio fa uscire l’acqua dalla roccia, dimostrando a tutto il popolo che, in qualunque circostanza di crisi, Egli possiede la soluzione e può offrirla in un istante, quando vuole. Se le situazioni di crisi permangono, ciò è segno che esse rispondono a un preciso progetto. Infatti, la privazione dell’acqua, nel deserto, è l’occasione permessa da Dio, per portare alla luce la fede ancora immatura del popolo, perché esso stesso ne prenda coscienza. Il prodigio compiuto attraverso il colpo del bastone di Mosè, muterà e risolverà improvvisamente la situazione drammatica. Il bastone è il simbolo del comando e dell’autorità della guida pastorale accreditata da Dio. Con esso Mosè ottiene l’acqua a tutto il popolo in una maniera innaturale, dimostrando così, in modo non verbale, la falsità di coloro che dubitano della sua autorità. L’Apostolo Paolo identificherà questa roccia con il Cristo crocifisso (xcfr. 1 Cor 10,4), precisamente con il suo Corpo, le cui piaghe sono le sorgenti della grazia che disseta il popolo cristiano. Il luogo dove si verifica questo scontro, e la sua soluzione miracolosa, viene chiamato con due termini che derivano dall’ebraico: “Massa e Meriba” (v. 7), che rispettivamente si possono tradurre con “tentazione e conflitto”.  
Don Vincenzo Cuffaro

Nessun commento:

Posta un commento